Scrive un lettore ad Aldo Cazzullo nella sua rubrica sul "Corriere della Sera": «tra due mesi sarà il bicentenario dalla nascita di Vittorio Emanuele II, Padre della Patria. Mi stupisce e mi sorprende il fatto che nel nostro Paese, nessuno ha ancora pensato di organizzare qualcosa. Pare che almeno a Torino qualcosa si stia muovendo, ma manca del tutto una visione "nazionale". Forse gli italiani hanno ancora paura di un Re morto da quasi un secolo e mezzo? Incredibile che a Napoli lo denigrino rimpiangendo i Borbone, ed a Milano preferiscano celebrare la morte dell'invasore Napoleone nel 2021». Risponde il giornalista-scrittore: «L'oblio di Vittorio Emanuele II non si spiega solo con la sua piemontesità. Direi che le cause sono due, una diretta e una subliminale».
«La prima - continua Cazzullo - la monarchia è stata espunta dalla storia d'Italia. I Savoia non hanno quasi difensori, se non qualche figura talora un po' patetica. E pensare che Vittorio Emanuele II era un personaggio da romanzo: sanguigno, coraggioso, grande soldato e grande amatore; adorava le donne e preferiva decisamente le popolane alle aristocratiche. La seconda causa è che, nell'era del piagnisteo generale, si è giunti a pensare che essere italiani sia una sfortuna. Aver unificato l'Italia per molti nostri compatrioti non è un merito, ma un demerito. Per qualcuno addirittura un crimine. Diceva De Gaulle che l'Italia non è un Paese povero; è un povero Paese. Mi rifiuto di crederlo. Ma molti italiani si comportano come se fosse davvero così». Concordo sui punti. Il Piemonte si è fatto via via scippare ogni cosa. La monarchia ha subito - a giusto titolo - un giudizio storico severo nel dopoguerra. Esiste tutto un mondo - penso ai neoborbonici - che piange sui misfatti dei Savoia e sull'Unità, se siamo messi così male nel confronto fra Nord e Sud, responsabilità ci devono pur essere e non solo sabaude. Ma certo questo Vittorio Emanuele II legami con la Valle d'Aosta ne ha e non è un caso che una sua statua osserva dal Parco dedicato a Emilio Lussu, di fronte alla stazione di Aosta, ragazzi che escono dal Liceo, piccioni che si aggirano e stranieri stesi sulle panchine. Quel "Re Cacciatore" aveva scoperto la Valle per la sua passione venatoria e nel solco dei legami fra Casa Savoia e la Valle. C'è un bello scritto dello storico Marco Cuaz che racconta di come nacque nel luglio del 1850 questa passione del Re per la caccia, esattamente a Champorcher, che divenne poi una sua abitudine stagionale. Racconta divertito Cuaz: «Nonostante l'età e la pinguedine, Vittorio Emanuele non perdeva tuttavia il gusto della vita spartana, delle levatacce e della vita all'aria aperta. Cacciava tutti i giorni. Si alzava invariabilmente alle quattro del mattino, si lavava con acqua fredda e rifiutava qualunque profumo. Sorbiva il caffè all'aperto, ispezionava le armi ed i cavalli e dava l'ordine della partenza per la caccia. Non mangiava fino al ritorno, verso le cinque della sera, ma pare che se a quell'ora il pranzo non era pronto inveisse in piemontese contro il cuoco, gli afferrasse di mano alcune cipolle e le divorasse con un po' di pane "come se fossero il miglior cibo del mondo". Dopo la cena firmava i decreti che gli venivano sottoposti. La memoria valdostana ha conservato un'aneddotica sterminata sul Re e sulle sue cacce, un'epopea popolare all'insegna dell'immagine di un Re umano, molto umano, bonario, un po' pasticcione, generoso, contraddittorio, un uomo del popolo che fondamentalmente "non amava fare il Re", ma preferiva stare in mezzo alla sua gente. Un Re buono, molto preoccupato del benessere dei suoi sudditi. Si racconta che quando uno dei direttori di caccia, preoccupato per le spese eccessive, propose di ridurre la paga dei batteurs a 7,50 lire al giorno, il Re rispose che se tutti coloro che nell'estate, grazie all'opera che prestano nelle cacce, guadagnano di che assicurare nell'inverno la polenta alle loro famiglie, "è giustissima cosa che il Re abbia a pagare caro il proprio divertimento a benefizio di povere famiglie". Un Re semplice che detestava le cerimonie ed amava la compagnia popolare. Il 19 luglio del 1875, attraversando la città di Aosta per recarsi alle cacce di Valsavarenche, dovette fermarsi per ascoltare il benvenuto del sindaco, ma poiché quest'ultimo pareva apprestarsi ad un lungo discorso, il Re si accomiatò bruscamente dall'oratore interrompendolo alla prima frase e ringraziandolo per gli auguri. Un giorno, mentre insieme ad un forte cacciatore locale, un certo Boretta, rientrava da un battuta di caccia sulla montagna di Fénis, dovette attraversare un torrente ingrossatosi dopo un forte temporale. Boretta si caricò allora il Sovrano sul dorso e iniziò l'attraversamento. A metà del guado, poiché il Re si muoveva inquieto sulle spalle del cacciatore, questi gli si rivolse in patois con un: "tente su bourich!" ("tieniti sùasino!"). Al che il Re, per nulla offeso, rispose nel suo dialetto: "ma salo nen chiel che l'aso a l'è coul ca porta?" ("ma non sapete che l'asino è quello che porta?")». Ricorda, su vdamonamour, Stella Bertarione: «Per le battute reali si muovevano, insieme al sovrano, circa duecento battitori, e decine tra cuochi e servitori: le cacce reali si trasformarono in un'importante fonte di reddito per i valligiani e produssero un sempre maggiore interesse da parte del Re e della nobiltà sabauda verso la zona del Gran Paradiso. Nel 1869 acquistò il castello di Sarre che divenne vero e proprio "quartier generale" del Re per l'organizzazione delle imponenti campagne venatorie. All'interno è un trionfo di trofei: migliaia di corna di camosci e stambecchi decorano pareti e soffitti sottolineando la passione del "Roi Chasseur"».