E' vero che, nella nostra vita quotidiana, usiamo varianti diverse delle lingue che conosciamo, nel mio caso italiano e francese. Un conto è il linguaggio familiare, quello adoperato in compagnia con gli amici, la lingua che uso se parlo in radio (diversa da quella in televisione, dove conta anche la gestualità), che cambia se devo tenere un conferenza o se devo scrivere qui sul blog. Le varianti sono tante e si intersecano fra di loro. Certo nella quotidianità - senza fare il vecchio bacucco - si nota un peggioramento nella forma e nella sostanza. L'uso del "tu" (quando non diventa il tragico "te") è diventato ossessivo e mostra, in certe circostanze, una sciatteria di comportamento che fa impressione e che non è solo un problema di educazione e di bon ton, ma inerisce questione più profonde di rispetto reciproco.
Così come il linguaggio scritto semplificato dei "social" o dei messaggini audio telefonici denotano una povertà, che va al di là della caduta di stile e riguarda un cosciente abbassamento della soglia di qualità linguistica. Gli esperti spiegano che questo riguarda proprio il vocabolario che si restringe e diventa minimalista e ciò si riverbera sulla stessa importanza della comunicazione. Illuminante a questo proposito è un articolo sul "Corriere della Sera" dello scrittore Paolo Di Stefano, che parte dalle mozioni discusse alla per chiedere al Governo - ho seguito parte della discussione su Radio Radicale - di istituire un "Dantedì" nel calendario annuale, cioè una giornata in omaggio del Sommo Poeta. Scrive Di Stefano: «L'Alighieri è il padre della nostra lingua, ma bisognerebbe ricordarsi che, da buon "padre" di famiglia, Dante è un modello di comportamento (linguistico). La riflessione viene spontanea leggendo il recente viaggio storico dal latino all'italiano contemporaneo di Valeria Della Valle e Giuseppe Patota ("La nostra lingua italiana", Sperling & Kupfer). Che tratta, tra l'altro, del linguaggio della "Commedia", mostrando come Dante riesca a impartire ai posteri una mirabile lezione di galateo linguistico, cioè di coerenza tra il registro stilistico e il contesto. E' questo uno degli insegnamenti fondamentali del buon professore di italiano: segnalare agli allievi che ogni circostanza richiede un suo livello linguistico (solenne, alto, formale, colto, informale, familiare, confidenziale, intimo eccetera)». Sottoscrivo in toto questo necessario esprit de finesse che evita una lingua standard misera e senza un suo galateo nell'impiego. Ancora da questo articolo: «Leggendo Dante è facile comprendere questo rapporto di necessità tra lingua e realtà comunicativa che spesso (e volentieri!) sfugge ai politici quando decidono di proporsi "pane al pane vino al vino" in qualsiasi situazione, ritenendosi più simpatici e diretti senza pensare che sono solo più inopportuni e cafoni. E' la sindrome Trump, ovvero l'effetto-social network - rapidità-sgangheratezza-scurrilità - esteso a ogni circostanza. Dante dissemina di parolacce l'Inferno (e in parte il Purgatorio), dove può parlare di "bordel", di "puttana", di "vacca", di "culo" e di "fica", può evocare il "trullare" dei peti, può sbizzarrirsi con i "lezzi", le "poppe", "l'unghie merdose", la "merda", le "minugia", la "strozza", la "rogna". Ma poi sa che nel Paradiso deve cambiare registro e veleggiare lieve per la Candida Rosa, dove non c'è più alcun lezzo ma "letizia", "divizia", "delizia"... Nel loro piccolo anche certe formiche politiche dovrebbero almeno un po' dantizzarsi. Per esempio, quelle che inveiscono contro il loro avversario con frasi tipo: "Si faccia curare, e da uno bravo!". (Cercare in rete per credere: è un'espressione bipartisan...). In questa ottica, ci vorrebbe un "Dantedì" al giorno. Perché, a proposito del parlare a vanvera si potrebbe dire quel che il Sommo Poeta disse del mostro Gerione: è una bestia che "tutto 'l mondo appuzza". E turarsi il naso non serve più». Ci vuole, insomma, un moto d'orgoglio e mai vergognarsi, volgarizzando la propria espressività, se si usano parole giuste al momento giusto e con il tono opportuno. Essere "terra a terra" non ha alcuna valenza positiva. Ci vuole anche nella lingua la necessaria "politesse", come si dice in francese con una parola - bizzarrie della lingua - che viene dal termine italiano "politezza", che ormai, pur straordinariamente espressivo, non si adopera più.