Sono in tanti ad avere scritto molte cose intelligenti sul potere evocativo della musica e davvero non ho nulla di originale da aggiungere. Ognuno di noi - verrebbe da dire come un "jukebox", se non che l'oggetto è misterioso per i più giovani - vive introitando quanto ascolta e poi magari canta lui stesso, dalle filastrocche dell'infanzia sino alla musica variamente "vissuta" nel tempo. Questo stock si fissa da qualche parte e torna utile alla bisogna. Per cui, esattamente come quel braccio meccanico che spostava i dischi per farlo suonare nel "jukebox", una canzone ha l'impulso rievocatore, che scatta in qualche angolo del nostro cervello, di riportare in superficie o ricordi veri e propri legati a fatti e persone o atmosfere vissute che pescano emozioni e sentimenti dal nostro passato. Ci pensavo in queste ore in cui sui "social" musicali sono apparse le canzoni immortali del duo Lucio Battisti - Mogol, che sono fissate nella testa di intere generazioni di "giovani" (del tempo che fu...).
Lo ha raccontato lo stesso paroliere-poeta Mogol su "La Stampa": «Come ben si sa, il repertorio di Mogol-Battisti non poteva essere ascoltato in rete perché le edizioni non lo consentivano. Ho intentato una causa a Grazia Letizia Veronesi, vedova di Battisti, e l'ho vinta. Il Tribunale di Milano ha nominato un liquidatore della società di edizioni "Acqua Azzurra", che ha dato il permesso di fare accedere al web i dodici album storici miei e di Lucio. La risposta è stata formidabile: molti ragazzi hanno ascoltato dovunque, e su "Spotify", per la prima volta queste canzoni. Ciò che sta accadendo non è solo piacevole. C'è un risvolto anche di assimilazione di una cultura popolare che è stata formativa per i padri. La cultura popolare è sempre formativa quando è di qualità. Non scordiamoci che vi apparteneva anche Dante Alighieri, che non ha scritto in latino; stessa cosa per Giacomo Leopardi e tutti i grandi poeti». Al di là del confronto piuttosto temerario - ma è vero che molti testi delle canzoni sono davvero poesia - resta un'evidenza: la canzone d'autore (o meglio "d'autori") ha segnato e segna molto la cultura popolare. Aggiunge Mogol: «Venerdì in classifica, siamo finiti sia Battisti ed io, che i "Beatles" di "Abbey Road" che fa cinquant'anni. E' una cultura che supera il tempo e che la gente fa poi diventare classica. La gente, non i critici, ha scelto la musica di Mozart. La cultura popolare è fatta di granelli di sabbia che si uniscono». Quest'estate. per quattro settimane, ho proposto una rubrica in una mia trasmissione radiofonica, tratto dal libro "45 giri, Sessanta dischi anni Sessanta che scalarono le classifiche" del simpatico vercellese Bruno Casalino per le edizioni Effedì. Bruno è stato bravissimo a raccontare la storia di canzoni che hanno segnato un'epoca e che vennero costruite con professionalità solide e importanti, rispetto a certe logiche odierne in cui la logica è più "usa e getta". Lo racconterà giovedì ad Aosta alle 18 alla libreria "Brivio" con la verve che gli è propria e ci sarà da divertirsi. Conosco quei titoli, ho visto le copertine, ho infilato quei piccoli dischi in vinile nel mangiadischi o gli ho messo sopra nei solchi la puntina del giradischi. Per non dire delle cassettine nei mangianastri delle macchine. Oggi li ritrovo sul digitale. L'evoluzione tecnologica fa persin paura è mai mi sforzerò di dire come generazioni come la mia abbiano assistito a cambiamenti come non è mai avvenuto per l'umanità in precedenza e tocca sempre imparare per non essere fuori dal gioco delle novità repentine. Ribadisco come quella musica che ho dentro la mia testa e anche nel mio cuore è, quando l'ascolto, come un'efficace macchina del tempo. Alcune di quelle evocate nel libro di Casalino sono canzoni diventate un classico ed il passare del tempo non ha spento il loro eco, altre sono tutte mie e tornano in vita solo con combriccole giuste, come i "coscritti" ed i compagni di classe. Guido Michelone, esperto di musica e docente universitario, nell'introduzione al libro, evoca questo periodo d'oro non solo per l'energia delle pagine di Storia di quel dopoguerra, ma anche per la musica: «La canzone italiana degli anni Sessanta comprende e favorisce situazioni espressive poliedriche a livello di forme e di contenuti: ci sono i melodici, gli urlatori e i primi rockers, ci sono i primissimi cantautori (la scuola di Genova e poi quella milanese), ci sono il cabaret meneghino e moderni napoletani, ci sono i "cantacronache", il "Nuovo Canzoniere Italiano" e il folk revival, ci sono il "dixieland", il californiano e la "jazz song", ci sono lo "yé-yé" e il "bitt" (scritto come si pronuncia, dall'inglese "beat"); e ci sono persino - quasi una categoria speciale! - i brani stranieri tradotti nella nostra lingua». I titoli? Dei sessanta dei Sessanta distillo per gusto personale e non citando brani stranieri che pure figurano nel libro: da "Azzurro" di Adriano Celentano (musica di Paolo Conte, testo di Vito Pallavicini) anno 1966 a "Cuando calienta il sol" degli "Los Hermanos Rigual" del 1962 dal ritmo latino-americano, da "Ho scritto t'amo sulla sabbia" cantato da "Franco IV e Franco I" proprio a Saint-Vincent nel 1968 a "Il cielo in una stanza" scritto da Gino Paoli e interpretato da Mina nel 1960, dal sempreverde "Il ragazzo della via Gluck" di Adriano Celentano ben prima che diventasse una sorta di predicatore a "La bambola" di Patty Pravo che conobbi una sera stregato dalla sua bizzarra personalità. Oggi con "Spotify" ed altre piattaforme non c'è bisogno di grandi fatiche se, per chi la mia età, si vogliono fare full immersion di nostalgia o, per i giovani, capire meglio - cercando brani d'antan - gusti e tendenze che segnarono la vita dei loro papà e dei loro nonni.