Partirò da vicino, che è apparentemente distante da dove voglio davvero arrivare, tuttavia resta sempre chiarissimo di come chi pensi di avere una Valle d'Aosta come un orticello chiuso senza il peso dell'esterno è obbligato dalla realtà a ricredersi. L'Autonomia, dal 1945 ad oggi, si è trovata ad affrontare un turbinio di cambiamenti interni ed esterni e sempre più certe decisione esterne, che siano italiane, europee o persino mondiali, si riflettono sul nostro ordinamento politico. Chi si illude diversamente vive nel passato e quando si parla di una «nuova Autonomia» ciò significa anzitutto avere questa consapevolezza, quella di avere energie e conoscenze tali che consentano di decidere sapendo quanto influisce dall'esterno su queste nostre scelte.
Ci pensavo rispetto a questo benedetto tema dell'Europa: è bastato uscire dal clima delle elezioni europee per veder scemare l'interesse del mondo politico sui temi cruciali del futuro dell'integrazione europea. Si tratta di un uso semmai strumentale dell'Europa, che non è «buona» o «cattiva», ma frutto del complicato intreccio fra i diversi Paesi membri e non si può essere indifferenti a questo dibattito, anzi bisognerebbe sforzarsi - senza troppe divisioni - a far crescere fra i valdostani la consapevolezza dei vantaggi per noi dell'essere europeisti in termini concreti e non da sognatori senza i piedi per terra. Leggevo ieri sul "Corriere della Sera" l'analisi lucida di Federico Fubini: «Designate le nomine di Bruxelles, digerita la sconfitta italiana, è il momento di registrare che quest'ultima è solo un dettaglio. Le novità in questo cambio di stagione politica sono anche, e forse soprattutto, altrove. Hanno votato alle Europee 32 milioni di persone in più rispetto a cinque anni fa, più o meno quante vanno alle urne per le Politiche in Italia: gli elettori capiscono che le decisioni prese a Bruxelles contano e per questo chiedono di avere voce in capitolo (un po' meno nel nostro Paese, uno dei pochi nei quali l'affluenza è in lieve calo). Questa domanda di politica europea naturalmente può prendere tante forme quante sono le culture. Venti milioni di elettori verdi, in gran parte sotto i trent'anni, sono convinti che nessuno Stato da solo possa gestire i problemi - clima, migranti subsahariani - che loro hanno davanti. Trentasei milioni di sovranisti pensano che Bruxelles non debba metter becco su come i governi trattano i propri conti o le istituzioni democratiche. Circa 120 milioni di socialisti, i popolari o i liberali chiedono che i Paesi cooperino, mettano in comune dei poteri, riconoscano regole e istituzioni condivise e le facciano rispettare agli altri». Poi bisognerebbe riflettere sul fatto che, di sicuro in Italia, il voto europeo è libero come un uccel di bosco e segue più quel che si sente nelle trippe di quello che passa nel cervello. Aggiunge Fubini: «Ci si dovrebbe dunque aspettare che tra cinque anni il sistema abbia cercato di rispondere alle attese. Dovremmo prevedere una grande iniziativa comune di investimenti verdi, l'avvio di una politica europea sui rifugiati degna di questo nome, interventi per dissuadere Varsavia o Budapest dal manovrare i giudici e intimidire i media, una mano ferma che guidi l'Italia fuori dalla palude del debito e della crescita zero. Un segno in questo senso c'è: i leader dei 28 Stati per la prima volta hanno nominato - nota Wolfgang Münchau - una squadra di federalisti: l'Alto rappresentante spagnolo Josep Borrell, il belga Charles Michel come presidente del Consiglio europeo, la tedesca Ursula von der Leyen alla guida della Commissione Ue pensano che l'Unione debba assumere più caratteristiche di uno Stato federale». Su Borrell, ferocemente contro gli indipendentisti catalani, nutro qualche dubbio, ma gli altri hanno - per loro DNA - un penchant federalista, ma tra il dire e il fare...: «E' lecito dubitare che accadrà. Ed è lecito sospettare che l'Europa dei prossimi anni si dimostrerà una potenza lenta. Tante forze la frenano: le sfide al sistema di Polonia o Ungheria, Italia o Gran Bretagna; la riluttanza di molti governi, Parigi inclusa, a condividere i propri poteri. Ma l'elemento d'incertezza nuovo nella stagione che si apre è che questa non è più la Germania che conoscevamo. Il Paese che oggi esprime la guida della Commissione non è più la Repubblica riluttante che prendeva sempre cura di mandare a Bruxelles un personale politico tedesco un po' opaco o di secondo piano. Questa volta è diverso: Merkel ha fatto passare alla testa della Commissione una persona direttamente riconducibile a sé. Von der Leyen è la sua delfina storica. Fra lei e la Cancelliera non c'è alcun grado di separazione, il successo o il fallimento della seconda si rifletterà sulla prima e soprattutto sul Paese di entrambe. Voglia di esplicitare il comando? Anche questa sarebbe una novità. In Europa la Germania è sempre stata una potenza per interposta persona. Ha sempre preferito far interpretare le proprie volontà ad altri, di altri Paesi, restando in seconda fila. La Germania si comportava così quando era una nazione sicura di sé e del suo posto nel mondo. Vale dunque la pena chiedersi se sia cambiato qualcosa, perché sembrerebbe proprio di sì. Sul piano economico nel 2019 la Repubblica federale presenta il tasso di crescita più lento d'Europa dopo l'Italia. Sul piano finanziario le sue prime due banche sono così deboli da essere costantemente al centro di voci su piani d'emergenza e scalate. Sul piano industriale il Paese si presenta in ritardo alla trasformazione tecnologica dell'auto e il manifatturiero è in calo da otto degli ultimi nove mesi. La situazione rischia poi di peggiorare se davvero Donald Trump in autunno farà scattare nuovi dazi americani sulle auto europee». Insomma: è interessante vedere dove andrà la Germania, avendo ottenuto il ruolo cardine alla Presidenza della Commissione. Conclude Fubini: «I segni di questa ricerca di pax europaea sono ovunque. Il semi-dittatore ungherese Viktor Orbán è riuscito a far sì che uno dei suoi fosse eletto vicepresidente del Parlamento a Strasburgo. Persino sulla strampalata politica economica dell'Italia si è deciso per ora di non affondare i colpi. L'importante è che nessuno porti la sfida al punto di rottura, mentre la Germania cambia pelle. Se poi sarà una delusione cocente per i 32 milioni di europei in più convinti che il loro voto contasse, lo si vedrà tra cinque anni». Per i valdostani mi permetto di aggiungere che c'è un punto chiave. Se le circostanze del batti e ribattiti sull'autonomia differenziata di Regioni come Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna - davvero poca cosa - sortisse un rinculo antiregionalista, allora sarà bene ricordare la fragilità della nostra Autonomia, prova di quella garanzia internazionale che blinda i sudtirolesi e per simpatia i trentini. Ero convinto che per noi i Trattati europei fossero un'assicurazione sulla vita per chi volesse giocare scherzetti che ci possano infine portare alla scomparsa ed al passaggio - vero orrore! - all'Area metropolitana di Torino e cioè alla morte politica. Dopo il "caso catalano" temo che nessuna difesa verrebbe dall'Unione europea e anche per questo - a tutela anche dei piccoli popoli europei - ci vuole un'Europa diversa, che sia anche per noi una garanzia.