Un giorno verrà in cui una certa curiosità - come dire? - "sociologica" si esaurirà. Ma per il momento e per fortuna mi ritrovo ad osservare, nel teatro della vita, situazioni di cambiamento che mi colpiscono e che, nella banalità della quotidianità, finiscono per essere scarsamente percepiti, nella logica di un certo conformismo che diventa distrazione. Ogni età ha le sue prospettive e i suoi riti. Ci pensavo in questo periodo in cui mi trovo a partecipare a due momenti diversissimi, che si incrociano però in modo singolare nella mia vita. Osservo con curiosità certi cambiamenti in corso, che dimostrano come si debba essere attenti a considerare certe vicende come segni di chissà quali evoluzioni, quando a conti fatti e comunque la si pensi diventano un segno inquietante di impoverimento. Il primo è il cammino di formazione religiosa del mio bimbo più piccolo: confessione, comunione, cresima. Il secondo sono le festicciole sempre più numerose di chi, più o meno mio coetaneo, se ne va in pensione.
Un tempo il catechismo era la normalità: non ricordo nella mia infanzia qualcuno che sfuggisse a questo passaggio iniziatico del cattolicesimo. Oggi, invece, segno dei tempi si vedono, a parte i bambini di altra religione che sono generalmente islamici e di cui mi sfugge del tutto quale analogo percorso seguano (il che non è rassicurante sui meccanismi di reciproca conoscenza), un sacco di comportamenti diversi. Il dato comune - famiglia non credente, parenti che «vogliono che decida il bambino da grande», atteggiamento snobistico-ribellistico alle convenzioni - è che viene meno una strada di conoscenza di rudimenti religiosi che saranno utili anche, per il suo futuro, a chi deciderà di vivere senza la religione. Fatto sta che ormai in tanti hanno deciso che i loro figli in parrocchia non ci andranno e questo malgrado i parroci abbiano smesso certi atteggiamenti del passato, aprendo il percorso di catechesi senza atteggiamenti di chiusura o di censura verso i genitori e il loro approccio verso la Chiesa. La seconda considerazione, all'altro capo della vita, è questa storia della pensione. Le citate festicciole di addio dei colleghi, che nel mio caso sono state un rito più volte ripetuto, seguono il ritmo della legislazione in materia, così cangiante da fare impressione. Quando ero deputato, seguii la materia, consentendo a molti lavoratori siderurgici di andare via a cinquant'anni in prepensionamento (compreso qualche moralista della vita pubblica valdostana a casa ormai da più di vent'anni). Questa età di quiescenza, come avvenne per chi fruì dei generosi pensionamenti pubblici del passato ed andò in pensione poco più che trentenne, oggi fa impressione, pensando al progressivo allungamento dell’età pensionabile, accorciata di recente - per ragioni demagogiche che peseranno sul futuro previdenziale dei giovani - per consentire la famosa "quota 100". Ma questa "fuga" di capisaldi del lavoro appena a sessant'anni risulta oggi un'emorragia di competenze che libera ben pochi posti di lavoro rispetto alle promesse mirabolanti di occupazione. Per cui questi festeggiamenti perché pensionati dovrebbero essere considerati momenti tristi per un mondo del lavoro che si depaupera e che non consente affatto il famoso cambio generazionale. Sono - l'uno e l'altro - due fenomeni sociali che dimostrano come le cose cambino e sono il segno tangibile che il progresso, come elemento faro con una luce sempre più luminosa, è un automatismo inesistente e retaggio di visioni positiviste che non tengono conto di una sorta di ignoranza imperante. Le circostanze purtroppo fanno vedere che si può tornare indietro e ciò avviene in un clima di generale catatonia che diventa un lasciarsi vivere senza più interessi a disvelare come certe tendenze abbiamo in sé rischi di imbarbarimento e autodistruzione, partendo da fenomeni di costume ormai banalizzati.