L'esposizione aostana ("Centro Saint Bénin" sino al 28 aprile) su Jacovitti è un gioiellino, che fa affiorare le memorie dell'infanzia ed è occasione utile per rendersi conto - viste le vicissitudini nella percezione pubblica di questo genio dei fumetti - della stupidità che può stare in ogni schieramento politico e che diffonde malevolenze come un virus. «Calomniez, calomniez, il en restera toujours quelque chose», pare abbia scritto per primo Francis Bacon, ripreso poi da altri autori. In questo caso è stata certa Sinistra, abilissima soprattutto nel passato a catalogare come impresentabili anche persone che non lo erano affatto. Anche in Valle d'Aosta ci sono rimasugli di questa vecchia disinformazione di stampo stalinista contro "nemici", ma si tratta di patetici sopravvissuti già sconfitti nella loro vita.
Ma torniamo a Benito Jacovitti, che aveva già il problema di questo primo nome scelto dal papà ferroviere nel 1923 per ovvie simpatie verso chi diventerà per un Ventennio "Il Duce". Ma in famiglia lo chiamavano Franco. Personalmente ho sempre amato Jacovitti ed ho avuto il suo diario a scuola per molti anni. I diari scolastici, che pure ci sono ancora in barba a quell'orrore del registro elettronico che ormai ha chiuso i nostri figli in una gabbia vera e propria senza possibilità di saltare un giorno di scuola o mascherare qualche votaccio, era un oggetto di cult per noi stessi, ma anche possibile oggetto di investigazione di un antropologo e pure di un sociologo. Quando il Web non c'era, il diario era qualcosa di "social" ed, almeno nelle mie classi, passava di mano in mano, diventando una sorta di blog-tazebao che andava ben al di là del suo uso scolastico con scritte, pensieri, fotocopie attaccate, stupidaggini e cose serie. E il mio "diario VITT" (così si chiamava la casa editrice erede de "Il Vittorioso") era zeppo delle vignette con salami, lische di pesce e ragnatele e ragni del grande Jacovitti, che ritrovavo anche sulla rubrica televisiva sui fumetti "Gulp", con sigla cantata da Lucio Dalla. Da più grande trovai Jacovitti su "Linus", diretta dal geniale Oreste del Buono, ma mi sfuggì allora il perché fosse sparito e poi riapparso. Era per la nomea, ingiusta, di essere un fascista. Ha scritto, così ho capito meglio, Malcom Pagani su "Il Messaggero": «Fascista. La minoranza rumorosa lo aveva bollato così nei tetri anni 70 e Benito Jacovitti che dal Ventennio aveva avuto in dote una sola eredità, il nome proprio, aveva provato a riderne in assoluta solitudine: "Eia, eia, Baccalà". La stagione dell'ironia era passata da un pezzo, quella dell'autoironia era percossa quotidianamente dal fideismo cieco della militanza e il figlio molisano di un ferroviere poi riscopertosi proiezionista, si era trovato improvvisamente ai titoli di coda e su un binario morto. Quand'era ragazzo e nelle redazioni fumose, le maratone di bravura sul terreno dell'umorismo vedevano tra i podisti Marchesi, Zavattini e Flaiano, sembrava che limiti e orizzonte creativo si spostassero ogni giorno un metro più in là. E Jacovitti, disegnatore di genio formatosi a "Il Vittorioso", aveva piantato la propria bandiera sulla frontiera già evocata da John Ford. Cocco Bill, il suo personaggio più famoso, dava vita a risse memorabili nei saloon del selvaggio West e nonostante bevesse camomilla, a restar tranquillo o a provare pietà per i nemici proprio non riusciva». Poi la spiegazione di quella sua epurazione: «Più nota, ma soffocata dal conformismo, dalla vigliaccheria e dall'egemonia intellettuale, la parabola calante di Jacovitti passato per meriti oggettivi e splendore immaginifico dal "Corrierone" all'oblìo in pochi, decisivi anni. Anni di piombo, anche tra le scrivanie dei giornali. Anni in cui le ironie di Jacovitti sul "Movimento Studentesco" non erano piaciute a capi, capetti e capibastone. Che non volesse uniformarsi alla vulgata unica, Jacovitti l'aveva messo in chiaro fin dall'esordio sul "Corriere dei Piccoli". C'è una maestra che insegue una mandria di piccoli lazzaroni con un lazo. I "Quattro piccoli contestatori" fuggono e Cocco Bill li irride: "Se la contestano a gambe", e ancora: "Quattro piccoli studenti in Movimento, un bel movimento studentesco". Dopo il Lucio Battisti in volo su "un bosco di braccia tese" e quindi immediatamente ascrivibile alla destra estrema (nonostante in via Gradoli, nel covo delle "Brigate Rosse", Polizia e Carabinieri avessero trovato l'intera discografia del cantautore di Poggio Bustone) ce n'era abbastanza per individuare un altro nemico immaginario, ma non supino e del tutto indisposto a chiedere perdono». Il "pezzo" di Pagani si fa amaro: «Nella solitudine: "La gente mi piace molto, ma una persona alla volta" Jacovitti si smarrì. "Mi sento come un clown, solo in mezzo alla pista, con tanta gente intorno. Ma lontana" diceva e nell'autoritratto: "Sono un buffone con il pennino" l'amarezza prevaleva sull'analisi impietosa. In principio Jac provò a reagire. Emigrò su "Linus", ritornò al "Corriere" per un breve periodo e poi venne ingaggiato da Adelina Tattilo e lavorò su un Kamasutra a fumetti: "Perché l'Italia stava diventando una sorta di Svezia senza educazione sessuale: un'orgia di guardoni al cinema e in edicola". Nel crepuscolo, Jacovitti alternò malinconia a sollievo per la ritrovata libertà. Esondando sulle riviste "hard" di un'era prepornografica, in un Paese dominato ancora dai pretori sessuofobi, dai film tagliati dalla censura o bruciati in piazza alla stregua dei volumi del "Fahrenheit" di Bradbury, almeno non incontrò chi in malafede si chiedeva cosa e come votasse nell'urna un artista apolitico di Termoli». Il giornale citato era "Playmen", risposta italiana a "Playboy". La mostra del Saint-Bénin è un'interessante vetrina di questa sua vita piena di disegni e di inventiva. In un'intervista Jacovitti, che si ritrova anche in un bel filmato nella sua bizzarria fisica, aveva detto ed è un interessante epitaffio: «A me dà fastidio la folla, non ho mai visto una partita di calcio per non stare in mezzo alla folla, non vado mai in tram perché la gente ti sta addosso. Sono solitario. Gli umoristi sono o tristi, o solitari, o matti. Io sono tutte e tre le cose, un clown. Il mio umorismo è basato sull'assurdo, anche se ho dei riferimenti ad un'epoca precisa, gli anni Trenta: i vestiti, i costumi, le automobili di "Ridolini", gli aerei tozzi. E poi sembrava che tutto funzionasse meglio, la posta arrivava il giorno dopo... Ma forse perché ero ragazzo e quando si è ragazzi si è più felici».