Nella vita si accumula un meraviglioso campionario di vizi e virtù e - senza immaginare il meticoloso lavoro dantesco della "Divina Commedia" che contiene tutta la commedia umana giunta al redde rationem - ognuno di noi ha una raccolta di volti simile a quegli album della "Panini" con il volto dei calciatori. Una di queste maschere, con cui mi è capitato e mi capita di avere a che fare e ne ho l'immagine in testa, è "l'invidioso", ricordando che l'invidia è uno dei sette Peccati Capitali. Ma proprio Dante - con sguardo in fondo bonario - pone gli invidiosi nel Purgatorio e il dantista Vittorio Sermonti così ne scrive: «I lessici medievali sanzionano: «"ti invidio" vale"‘non ti vedo", cioè "non sopporto di vedere il tuo bene"». E, in effetti, "invidiare", alla radice, designa un'alterazione malevola e funesta della funzione visiva...».
«Gli Invidiosi - continua Sermonti - che non hanno tollerato di vedere la felicità del prossimo, che gliel'hanno iettata ("gufata" si direbbe oggi), perché in quella accusavano una diminuzione della propria, eccoli qua, vestiti di livido contro il lividore della roccia a espiazione di vecchi livori (altro mezzo circuito etimologico), affastellati quasi a crescere l'uno sull'altro, con le palpebre cucite. Ma riescono a piangere: e proprio questo pianto faticoso e buio promette a questi ciechi il recupero del bene della vista, la restituzione del sole. "O gente sicura/ (...) di veder l'alto lume/ che 'l disio vostro solo ha in cura", li interpella il pellegrino Dante». Ha scritto sul tema il sociologo Francesco Alberoni: «L'invidia è il sentimento che noi proviamo quando qualcuno, che noi consideriamo del nostro stesso valore ci sorpassa, ottiene l'ammirazione altrui. Allora abbiamo l'impressione di una profonda ingiustizia nel mondo. Cerchiamo di convincerci che non lo merita, facciamo di tutto per trascinarlo al nostro stesso livello, di svalutarlo; ne parliamo male, lo critichiamo. Ma se la società continua ad innalzarlo, ci rodiamo di collera e, nello stesso tempo, siamo presi dal dubbio. Perché non siamo sicuri di essere nel giusto. Per questo ci vergogniamo di essere invidiosi. E, soprattutto, di essere additati come persone invidiose. In termini psicologici potremmo dire che l'invidia è un tentativo un po' maldestro di recuperare la fiducia e la stima in sé stessi, impedendo la caduta del proprio valore attraverso la svalutazione dell'altro». Personalmente, pur avendo mille difetti, non ho mai provato invidia e provo un'umana pietà nel caso in cui mi accorga che qualcuno ne provi nei miei confronti. Penso a chi si macera e si strugge, cercando di fare del male e finisce, in un triste cortocircuito, per farne a sé stesso. Ha scritto San Gregorio Magno, non sapendo che secoli dopo sarebbero venuti i "social": «Dall'invidia nascono l'odio, la maldicenza, la calunnia, la gioia causata dalla sventura del prossimo e il dispiacere causato dalla sua fortuna». Ma ne esiste anche una versione laica del filosofo, a me caro, Immanuel Kant, che considera l'invidia ("livor") come una «tendenza a provare dolore per il bene degli altri anche quando tale bene non reca alcun danno al proprio bene». Essa consiste in «un rancore che scaturisce dal vedere messo in ombra il nostro bene da quello altrui; e questo perché sappiamo apprezzare il bene e rendere percettibile quest'apprezzamento non misurando il bene secondo il suo valore intrinseco, ma soltanto raffrontandolo al bene altrui. [...] Le spinte dell'invidia risiedono dunque nella natura dell'uomo e soltanto quando erompono l'invidia si trasforma nell'odioso vizio di una passione rancorosa che tormenta chi vi si abbandona e che tende alla distruzione, se non altro auspicata, della felicità altrui. Essa è quindi contraria sia al dovere dell'uomo verso se stesso sia a quello verso gli altri». C'è altro da aggiungere? Forse solo che il "rosicone", più il tempo passa, più lo si vede consumarsi e poi spegnersi come una candela.