Bisogna studiare o non bisogna studiare per fare politica? La domanda, posta così, rischia di essere ambigua. Ricordo tanti anni fa uno studio in una pubblicazione sulla Valle d'Aosta che tendeva a dimostrare - e la questione fu discussa e discutibile - il basso livello d'istruzione di larga parte dei consiglieri regionali della Valle d'Aosta dal dopoguerra sino all'epoca di pubblicazione. Esisteva in questa logica un evidente snobismo, perché le singole storie delle persone ed il loro background non sono semplicemente riportabili ai titoli di studio più o meno elevati, ma esiste anche un percorso proprio che ognuno può avere, fatto di conoscenze ed esperienze ed in questo senso, in passato, il ruolo formatore dei grandi partiti di massa spesso suppliva alla mancanza di istruzione in senso formale.
Tuttavia non bisogna spingere l'acceleratore - come pare avvenire nell'Italia di oggi - verso una sorta di disprezzo per chi gli studi li ha fatti e compiuti, come se in fondo si fosse più "popular" a sbagliare il congiuntivo o a trovarsi in posti di responsabilità in materie di cui non si ha neanche l'elementare "abc". Scriveva Umberto Eco in un celebre intervento in cui segnalava i miasmi del ritorno di attitudini di stampo fascista: «Dalla dichiarazione attribuita a Göbbels ("Quando sento parlare di cultura, estraggo la mia pistola") all'uso frequente di espressioni quali "porci intellettuali", "teste d'uovo", "snob radicali", "le università sono un covo di comunisti", il sospetto verso il mondo intellettuale è sempre stato un sintomo di Ur-Fascismo. Gli intellettuali fascisti ufficiali erano principalmente impegnati nell'accusare la cultura moderna e l'intellighenzia liberale di aver abbandonato i valori tradizionali». Il vero dramma è l'ignoranza, che sembra troppo spesso pervadere almeno due aspetti. Uno è il confronto politico in cui - lo vediamo in modo plastico nei talk show - ci sono minus habens che attaccano persone che hanno passato una vita studiare certe materie e, nel concetto distorto di eguaglianza, anche chi non conosce certi argomenti si sente legittimato ad aggredire chi le cose le sa. La logica di chi aggredisce e urla più forte o si sente «dalla parte del popolo» stravolge ogni logica di confronto e impoverisce il povero telespettatore, che sia la politica estera, quella economica o temi come le vaccinazioni o il possesso di armi. Ci sono dei robot istruiti da chissà quali coach che ripetono formule e formulette spesso con maleducazione di fronte a chi si illude ancora di poter parlare in modo civile, svolgendo i propri argomenti. Il secondo filone dell'ignoranza - punto centrale per chi fa politica - è legato al dovere di studiare e di approfondire i dossier a fronte di quanto gli esperti propongono in tutti i casi in cui le decisioni, infine, sono davvero politiche. Questo significa avere degli strumenti di base, affaticarsi sulle carte, avere l'umiltà di ascoltare e impiegare del tempo. Chi è sempre in televisione o in perenne giro elettorale dappertutto - stando raramente alla propria scrivania - mi domando seriamente come possa svolgere correttamente il lavoro per cui è pagato. Abissi di ignoranza si sono visti - per citare due Governi di diverso colore - sia nel Governo Gentiloni che in quello Conte in una logica bipartisan inquietante. Che sia chiaro, se mai lo si dovesse ripetere come un mantra, che l'ignoranza non è una virtù e dire che la competenza conta non vuol dire essere colpiti da chissà quale virus élitario, che distanzia dal famoso «popolo», cui ci appella come entità mitica a copertura di qualunque cosa. Si aggiunge l'aggressività eccessiva di una comunicazione politica che sfugge ad ogni regola e che ruota su due perni. I "social" sono un terreno di coltura di odio e di fake news, in barba al potenziale straordinario di diffusione capillare che rende gli strumenti importanti. Ma ci sono spin doctor ed équipe ormai persino radicate nei Ministeri e queste ultime agiscono non nel solco tradizionale di comunicazioni anodine ma si usa la grancassa della propaganda continua ed anche del veleno verso gli avversari senza rifarsi a elementari regole di bon ton. Si batte sul chiodo dell'"effetto annuncio" con un Parlamento ormai diventato un "votificio", specie con il voto di fiducia che svuota ogni ruolo reale di un Legislativo che ha varato pochissime leggi in questa Legislatura e macina semmai decreti legge imposti. Esiste, infine, vecchia storia italiana, la logica degli "amici degli amici" che sui mezzi di comunicazione di massa, specie quelli più popolari, distribuiscono come in un fast food il Verbo, sapendo quanto in Italia si ceda con facilità al conformismo e lo dico, con mestizia, da vecchio giornalista con annessa esperienza politica. Anche questo, a ben pensarci, è un problema di cultura politica e di rispetto istituzionale.