Trovo giustissimo fare attenzione a che cosa mangiamo, perché ne va della nostra salute e direi che si è diffusa sul punto nel tempo una crescente consapevolezza, ma certo qualche stortura esiste sempre. Purtroppo nella quotidianità non si può seguire l'utopia di Carlin Petrini, papà di "Slow Food", quando dice: «Ho bisogno di conoscere la storia di un alimento. Devo sapere da dove viene. Devo immaginarmi le mani che hanno coltivato, lavorato e cotto ciò che mangio». L'esatto opposto, per capirci, è quel "cibo spazzatura" che ancora esiste, malgrado tenti con operazioni di marketing di dimostrare il contrario. Sono per natura un libertario, per cui penso davvero che ognuno possa mangiare quello che vuole. Con la solita regola - che non sempre vedo applicata - del rispetto reciproco.
Caso tipico di malfunzionamento del sistema sono quei vegetariani e vegani che invadono il mio spazio con ramanzine di vario genere per me - onnivoro - che consumo pure la carne ed altri prodotti di origine animale. Trovo che sarebbe bene che ci fosse, da parte di chi diventa maleducato, un atteggiamento diverso e purtroppo ce ne sono alcuni davvero aggressivi. Idem per chi soffre di allergie o di intolleranze: io stesso da poco ho scoperto qualche disturbo di questo genere con alcuni prodotti del mare, ma mai mi sognerei di essere invitato a cena senza segnalare questo problema per evitare imbarazzi. Ci sono quelli poi che hanno delle vere e proprie "fisse" in questo stesso filone e sono ospiti difficilissimi. Giuro di conoscere qualcuno che si è presentato con il proprio cibo da asporto da mangiare al posto delle pietanze offerte: meglio che se ne fosse stato a casa, con tutta franchezza. Trovo, invece, giusti gli appelli ad acquisti in ambito locale a beneficio degli agricoltori e delle aziende di trasformazioni del posto, anche se bisogna essere guidati dal buonsenso contro certi rischi di ossessione e di chiusura. Ricordo ad esempio - citando l'esperta di inglese de "Il Messaggero" Antonella Distante il termine "locavore": «"Locavore" non è un animale, come potrebbe sembrare dal nome, ma una persona che mangia solo alimenti prodotti in prossimità della zona di residenza (entro i duecento chilometri) oppure addirittura che ricorre al cosiddetto "zero-mile food", ossia "cibo prodotto a chilometri zero". Si tratta di una parola composta da "local, locale", più il suffisso "vore" (che indica il concetto di "mangiare, divorare" di derivazione latina) ed in italiano è stata recepita come calco nella forma "locavoro". La parola viene utilizzata nel campo enogastromico ma viene allacciata anche alle politiche di tutela dell'ambiente nella cosiddetta "green economy", dal momento che le abitudini alimentari dell'individuo "locavoro" contribuiscono al rispetto dell'ambiente: consumando derrate provenienti da zone limitrofe, con minore impiego di mezzi di trasporto, viene favorita la riduzione della produzione di CO2 nell'atmosfera. Il fenomeno nel suo complesso è invece indicato con il termine "locavorism"». Sul "chilometro zero" ho già detto come la penso. Preso con buonsenso ha un suo perché, ma non si tratta di scadere in logiche grottesche o peggio in falsificazioni. Penso ad una realtà di montagna come quella valdostana che per logiche di stagionalità non può certo garantire una visione troppo fideistica del cibo da consumare. Lo stesso vale - guardatevi prodotti nei supermercati - nell'inflazione dappertutto del marchio "prodotto italiano", come se fosse di per sé un elemento di chissà quale garanzia in una sorta di... "sovranismo alimentare". Medesima sospettosità, confortata da inchieste interessanti, riguarda il vasto modo del biologico contro l'invasione nei cibi di chimiche di vario genere. Anche in quel caso è evidente come il fenomeno si presti al rischio di frodi, approfittando della buona fede del consumatore. Mi ha molto divertito, visitando "Eataly" a New York, constatare un fenomeno di tutta evidenza: dappertutto ci sono elementi evocativi l'importanza di prodotti tipici, garantiti e di qualità. Ma si scopre poi che, per il palato meno esigente degli americani, figurano in vendita prodotti italiani di largo consumo, che sono del tutto industriali, inseriti in un contesto che è tutta un'esaltazione, evidentemente fallace, dei prodotti di nicchia. Questo vale per aprire gli occhi in tutte le circostanze.