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06 feb 2019

Le Alpi e le cupe radici del "wilderness"

di Luciano Caveri

Dal dopoguerra ad oggi sono venuti in Valle d'Aosta molti leader politici nazionali, che si fanno - com'è giusto che sia - preparare una sorta di "carnet de voyage" in vista dell'incontro con le Autorità locali. Questo avviene in particolare quando ci sono delle elezioni di mezzo e fioccano promesse ben coordinate negli "appuntini" pronti per l'uso. Se si va a veder fra i temi degli ultimi anni, emerge anche il particolarismo delle zone di montagna cui apparteniamo, senza "se" e senza "ma", per via della geografia della Valle. Essendo fra coloro che hanno per primi battuto questo terreno in chiave nazionale ed europea (oserei dire "mondiale" con l'Anno Internazionale delle Montagne), trovo che sia positivo evocare questa questione, che per altro - quando il bilinguismo valdostano era solo francese e patois - era a fondamento delle ragioni Autonomistiche in assenza di una questione linguistica.

Cresce però nel tempo l'evidente fastidio per il popolamento della montagna e per le attività economiche vecchie e nuove che si installano. Ne scrivo da tempo e devo dire che lo faccio con il mio corrispondente occitano, Mariano Allocco, che mi manda un suo scritto stimolante intitolato "Wilderness? No, grazie!". Così scrive Mariano: «Da montanaro torno su un tema che mi sta a cuore, quello dell'ambiente che mi circonda quassù, da sempre luogo "domestico" e non selvaggio. Sempre più invece sento parlare di "wilderness", concetto che riporta ad un ambiente naturale e selvaggio privo di tracce dell'uomo. Termine ora di moda e sul quale vale la pena riflettere perché non è una questione banale per chi vive le Alpi. Cominciò a parlarne Aldo Leopold, ecologo statunitense della prima metà del '900 e prima di lui Henry David Thoreau, filosofo trascendentalista, sempre statunitense, della prima metà dell'800. Oltre che ad una nuova posizione dell'uomo nei confronti della natura e della società, il trascendentalismo affermava l'originalità della cultura americana nei confronti di quella europea. Comprensibile che questa scuola di pensiero si sia sviluppata negli Stati Uniti, dove nel giro di tre secoli era stato travolto e stravolto il precedente millenario rapporto tra uomo e natura. Negli USA non c'è stato il millenario processo storico che in Europa ha portato alla gestione del territorio, in tempi rapidissimi l'Occidente si è imposto senza andare troppo per il sottile, né con i nativi, né con il territorio. La ricerca di un equilibrio accettabile, almeno sul piano del rapporto con la natura, ha portato nel 1964 alla firma da parte di Lyndon Johnson del "Wilderness act". Con "wilderness" si intende da allora "un ambiente naturale e selvaggio, in contrapposizione alle zone dove l'uomo e le sue opere dominano il paesaggio, riconosciuto come un'area in cui la terra e la sua di vita non sono ostacolate dall'uomo, dove l'uomo stesso è un visitatore, ma che non vi rimane", le aree "wilderness" così definite ora sono 757 e comprendono il cinque per cento del territorio degli Stati Uniti. Bella cifra. Negli USA tutti accettano questa impostazione, ma la filosofia che sottende il "wilderness" non può essere accettata a cuor leggero in Europa. Diverso in Europa il contesto geografico, sociale, storico e le zone in cui "l'uomo è visitatore e non vi rimane" non so dove siano, ma la differenza maggiore sta nei più di tremila anni di storia che a loro mancano e questo, specialmente visto dalle Alpi, fa una bella differenza. Perché si parla allora di "wilderness" da noi? Sicuramente non per i motivi che hanno spinto gli USA al "Wilderness act", ma principalmente perché avere a disposizione regioni selvagge senza traccia d'uomo sta diventando una necessità per la sopravvivenza delle masse urbane alienate, è un antidoto indispensabile contro la pressione insostenibile della vita moderna, un mezzo per mantenere un minimo di equilibrio e serenità. Dopo i disastri fatti dalla modernità nei confronti del mondo, in Occidente si sta affermando l'idea che l'uomo non faccia parte della natura, ma ne sia il nemico e che vada allontanato da essa. A me pare una patologia di massa, epidemia che sta contagiando sempre più persone e che va curata in qualche modo, però non la si cura limitando le libertà altrui. Il sospetto è che qualcuno voglia fare delle Alpi una zona "wildnerness" da usare come alibi e compensazione per i disastri fatti in pianura. Usiamo allora con prudenza la parola "wilderness" e mai guardando alle Alpi che storicamente sono una delle zone più antropizzate d'Europa. Su di esse si possono trovate tracce di quasi tutte le civiltà europee e su di esse noi montanari vogliamo poter continuare a vivere in libertà. Teniamo poi ben presente che specialmente negli USA, ma anche altrove, i nativi hanno subito e pagato a caro prezzo la politica "wilderness". Per questo sono da sempre critico nei confronti di una politica montana che da alcuni decenni pone al centro dell'attenzione l'ambiente, la "natura", e non l'uomo che lo vive». Ma - attenzione! - questo fenomeno di un ecologismo non ha solo questa vena, come ho scritto e lo condividiamo con Mariano, un penchant inquietante, per nulla "progressista”" Scriveva mesi fa "Il Post": «L'attenzione al cibo, all'ambiente, ai diritti degli animali e alle forme di coltivazione eticamente sostenibili viene spesso associata ai movimenti progressisti e di sinistra. Queste pratiche alimentari e agricole hanno a che fare con il desiderio di mangiare in modo sano e salutare, ma anche e soprattutto con questioni morali e sociali. Negli ultimi anni, ha raccontato "Politico" in un suo recente articolo, la produzione di cibo "pulito" e persino il trattamento degli animali sono diventati però interessanti e popolari anche tra persone e organizzazioni di estrema destra. "Dieta e politica sono sempre state strettamente legate, ma in modi sempre diversi. Il mangiare pulito sta ora tornando a destra", scrive "Politico", precisando che però non è una novità. "Politico" sostiene che i suprematisti bianchi della Germania, e anche quelli di altri paesi, si stiano convertendo a una dieta che non prevede il consumo di prodotti di origine animale. Uno studio del 2012 condotto dalla "Fondazione Heinrich Böll", legata al partito tedesco dei Verdi, ha parlato della presenza di un movimento di questo tipo nello stato federato del Meclemburgo - Pomerania Anteriore (nella Germania orientale), la cui economia si basa sulla coltivazione della terra e sull'allevamento e che è stato definito la "Toscana dei neonazisti", poiché una buona percentuale delle persone che vi abitano hanno ideologie di estrema destra. Nello studio si spiega che in Germania l'ambientalismo ha radici profonde nei movimenti razzisti, xenofobi e antisemiti, poiché si basa sulla celebrazione del sangue e della terra di fine Ottocento e sulla connessione quasi mistica tra la campagna tedesca e l'identità etnica. Lo stesso Partito dei Verdi, quando venne fondato nel 1980, era composto da alcuni esponenti di estrema destra; poi prevalse la componente progressista, ma i Verdi tedeschi non sono mai stati organici all'estrema sinistra, com'è accaduto invece in Italia. E ancora: "La retorica dell'ecologismo di destra è particolarmente evidente nella rivista bavarese "Umwelt and Aktiv", che in copertina alterna foto bucoliche di paesaggi tedeschi al tramonto a duri messaggi politici. Nella presentazione del periodico si parla di protezione dell'ambiente, di benessere degli animali e di sicurezza nazionale: "La protezione della natura inizia a livello locale, nelle foreste, sulle montagne, nei laghi e sulle spiagge. In breve, in patria". Alcuni articoli elencano varie erbe da cucina, propongono teorie sull'estinzione delle api e si oppongono alla caccia ai delfini. In mezzo ci sono anche articoli esplicitamente xenofobi. In un pezzo sul valore pedagogico degli "asili naturali" (gli asili organizzati all'aperto in mezzo alla natura in cui i bambini sono supervisionati da un adulto più che guidati nelle varie attività) si spiega per esempio come rappresentino un'alternativa alle scuole materne multiculturali. Un altro articolo prende di mira la "barbarie" delle pratiche di macellazione halal, che segue i principi della legge islamica, e chiede agli attivisti per i diritti degli animali di opporsi al "fondamentalismo islamico dalla mentalità ristretta e dal cuore freddo" (si usano cioè i diritti degli animali per motivare le proprie politiche anti-islamiche)". Aggiungerei un pezzo di un articolo di Peter Staudenmeier, "Ecologia fascista: l'ala Verde del Partito Nazista", pubblicato su "artobjects": «La Germania non è solo il luogo di nascita della scienza dell'ecologia e il luogo dove la politica dei Verdi è diventata importante; è anche stata la patria di una particolare sintesi di naturalismo e nazionalismo forgiato sotto l'influenza dell'irrazionalismo antiilluminista della tradizione romantica. Due figure del XIX secolo esemplificano questa malaugurata congiunzione: Ernst Moritz Arndt e Wilhelm Heinrich Riehl. Meglio noto in Germania per il suo fanatico nazionalismo, Arndt si dedicava anche alla causa contadina, il che lo portò a una preoccupazione per la terra stessa. Gli storici dell'ambientalismo tedesco lo menzionano come il primissimo esempio di pensiero "ecologico" in senso moderno). Il suo notevole articolo del 1815 "Sulla cura e la conservazione delle foreste", scritto all'alba dell'industrializzazione in Europa Centrale, si scaglia contro il miope sfruttamento delle foreste e del suolo, condannando la deforestazione e le sue cause economiche. A volte scrisse in termini tremendamente simili a quello del biocentrismo contemporaneo: "Quando si vede la natura in una necessaria correlazione e interconnesione, allora tutte le cose sono egualmente importanti - cespugli, vermi, piante, esseri umani, pietre, niente primo o ultimo, ma tutto una sola singola unità". L'ambientalismo di Arndt, comunque, era inestricabilmente legato a un nazionalismo violentemente xenofobo. I suoi appelli eloquenti e anticipatori per una sensibilità ecologica erano sempre espressi in termini di benessere del suolo tedesco e del popolo tedesco, e le sue ripetute polemiche folli contro la mescolanza razziale, le esigenze di purezza razziale teutonica e gli insulti contro francesi, slavi ed ebrei, segnavano ogni aspetto del suo pensiero. Proprio all'inizio del XIX secolo la connessione mortale tra amore per la terra e nazionalismo razzista militante era saldamente a posto. Riehl, studente di Arndt, sviluppò ulteriormente questa sinistra tradizione. Per certi aspetti la sua vena "verde" era significativamente più profonda di quella di Arndt; presagendo certe tendenze nel recente attivismo ambientalista, il suo saggio del 1853, "Campi e foreste", finiva con un richiamo alla lotta per "i diritti delle terre incolte" ("wilderness"). Ma anche qui il pathos nazionalista dava il tono: "Dobbiamo salvare le foreste, non solo perché i nostri forni non diventino freddi in inverno, ma anche perché la spinta della vita del popolo continui a battere calda e gioiosa, perché la Germania resti tedesca".». Mi pare ce ne sia abbastanza per riflettere.