Qualche settimana fa me la sono goduta. Ero con il mio piccolo sciatore ed un suo amichetto che facevano gli sbruffoni sulle piste. Per puro sadismo ho dato un occhio ad un muro solo parzialmente battuto, perché ormai sostituito da una sorta di chicane per evitarlo. Così il muro appariva come certe piste di un tempo: tutto gibboso e i due sbarbatelli - abituati a piste fresate a perfezione dai gatti delle nevi di oggi - si sono incartati, mentre il vecchietto sottoscritto scendeva passando da una gobba all'altra. Forza dell'abitudine rimasta nelle gambe da quelle piste anni Sessanta - Settanta, quando le attrezzature per lo sci erano meno confortevoli e lo erano anche gli impianti e naturalmente le piste, specie sotto il profilo della sicurezza. Oggi, pur non esistendo un azzeramento totale del rischio (penso alla necessità di usare il casco perché la maggior velocità innesca il rischio di scontri), di sicuro certi pericoli del passato sono ridimensionati fra reti, materassi e segnaletica.
Naturalmente molto è frutto - penso alla legislazione valdostana grazie ad una norma d'attuazione - di una costante miglioria delle norme ed anche di certe minacce che hanno messo sul chi vive in tutta Italia, pensando alla vasta giurisprudenza attorno all'incidentalità sciistica, a suo tempo meritoriamente approfondita dalla nostra "Fondazione Courmayeur". Purtroppo, però, qualche caso mortale si registra ancora. Penso alla bimba di nove anni morta in Val di Susa su di una pista della Via Lattea, mentre sciava con il papà, per una caduta ed un urto contro una barriera frangivento in legno. Mi riferisco anche alla bimba di otto anni morta in Alto Adige/SüdTirol in slitta perché la mamma, al posto di imboccare la pista giusta per le slitte, ha imboccato una pista nera più a monte con un urto letale per la piccola. Spetterà in entrambi i casi alla Magistratura appurare le responsabilità e devo dire che anche in questi casi ho letto dei processi sommari sui giornali, con questo vizio italiano in cui certe cronache più che racconti sono solo commenti a caldo e condanne senza approfondimento. Apprezzo, leggendo con qualche ritardo perché ero via, il saggio editoriale su questo secondo caso del direttore del giornale "Alto Adige", Alberto Faustini: «Emily non doveva morire. Punto. Nemmeno per incoscienza o distrazione. Al di là delle inchieste, al di là dei cartelli, al di là di chi non doveva essere su quella pista, al di là di chi avrebbe dovuto comunque vedere quella signora e quella bimba che scendevano dall'impianto, facendosi e facendo loro qualche domanda, restano delle gocce di sangue sulla neve. L'ultimo segno d'una vita non vissuta. Di un'esistenza durata soli otto anni. Un respiro strozzato. Non si può morire giocando. Non si può morire in vacanza. Non così. La morte è consueta compagna di cordata di chi vive ogni giorno l'impresa, ma non è e non può essere il traguardo macabro d'una slittata. Se anche si dovesse dimostrare che è stato fatto tutto il possibile per impedire che una slitta arrivasse lassù, finendo per sbaglio su quella pista nera, il nostro territorio dovrà comunque fare tesoro di questa pagina buia: rendendo ancor più sicuro ciò che è già sicuro, intensificando i sistemi di controllo. L'errore è umano per definizione. Ma anche le risposte e le soluzioni spettano all'uomo. Che deve impedire in tutti i modi che si vada con una slitta su una pista nera: non si può infatti morire dove non si dovrebbe essere. E il punto sta tutto qui. Viene in mente la tragedia del Cermis, con quella motoslitta e quei "vagoni" improvvisati che hanno riempito di sangue e di dolore un'altra pista. Ma lì non c'era modo di fermare l'incoscienza e la superficialità dell'uomo, la follia di una corsa che certamente aveva dei precedenti scellerati, semplicemente meno funesti. Quello che è accaduto sul Corno del Renon, invece, non doveva proprio accadere: una mamma e una bimba alla fine della corsa della vita. Anche se distratte, anche se incoscienti o disorientate, anche se inconsapevoli dei rischi che si possono correre quando una slitta si trasforma in un missile ingovernabile, non dovevano essere su quella pista. L'errore resta inspiegabile. E anche assurdo, per quanto ognuno di noi, a maggior ragione quando è in vacanza, possa sentirsi almeno per un istante immortale. La morte di Emily si rispetterà solo se nessuno correrà in futuro il rischio di morire così. Giocando. All'inizio della vita». La montagna ha qualche rischio in più di altri ambienti naturali e dobbiamo sforzarci di informare per filo e per segno chi la frequenta in vacanza (penso anche al giovane snowboarder morto nelle scorse in una zona vietata di Courmayeur). Certo resterà comunque uno spazio di imponderabilità, come sempre e dovunque nella vita, ma aumentare il livello di consapevolezza e di sicurezza resta un obbligo, soggetto a periodico miglioramento, come la mia generazione - andata in auto senza cinture, in moto e in bici senza casco e appunto su piste da sci attrezzate alla bell'e meglio - può testimoniare.