E' con grande rammarico che prendo atto degli atti finali e di fatto allo stato irreversibili dell'uscita del Regno Unito dall'Unione europea: una sconfitta per l'europeismo a chiusura di una pagina cupa, resa comunque accettabile in termini economici per i Paesi restanti grazie alla capacità di negoziatore del mio amico Michel Barnier, abile e deciso in questo suo incarico così delicato. Termina così il braccio di ferro sulla "Brexit", parola che si riferiva al referendum autolesionista indetto per chiamare il popolo britannico ad esprimersi sulla volontà di restare o meno nell'Unione europea (da "Britain", Gran Bretagna ed "Exit", uscita). Il referendum, tenutosi il 23 giugno 2016, si era concluso con la vittoria del fronte favorevole all'uscita (52 per cento) e non avremo mai la prova del nove sulla tenuta di questa volontà se si fosse rivotato a mente più lucida.
La messa in pratica della volontà dei cittadini britannici non è stata immediata, e ci sono voluto quasi due anni e mezzo per negoziare il nuovo status come previsto dall'articolo 50 del Trattato Ue. Theresa May con un emendamento alla "Withdrawal Bill" (o "Repeal Bill"), la legge quadro sul divorzio dall'Ue aveva fissato la data dell'uscita per venerdì 29 marzo 2019, alle ore 23.
Ritengo questa scelta, legittima perché frutto di un processo democratico, un grave errore e forse scozzesi e irlandesi che sono nel Regno Unito lo aveva già capito all'epoca del voto, raggiunti da tanti che - studiate le conseguenze e cessata l'ondata antieuropeista che originò il fenomeno - si trovano oggi nell'inutile posizione di piangere sul latte versato e sono sicuro che il tempo lo dimostrerà, anzi sono già molti i segnali che lo dimostrano.
Il mio dispiacere deriva anche dalle esperienze europee, che mi hanno insegnato quanto i colleghi del Regno Unito, ognuno con proprie caratteristiche secondo la provenienza geografica, avevano quell'acume, quella competenza, quel sense of humour che faceva di loro degli europei con la puzza sotto il naso verso noi "continentali", ma il loro apporto ritengo fosse uno straordinario arricchimento al quel tappeto pieno di disegno e di orditi diversi che è l'Europa.
Bisogna avere un senso della Storia e non avanzare a tentoni verso il suo esatto contrario. Lo ricordava alla Costituente Luigi Einaudi, federalista della prima ora: «L'Europa che l'Italia auspica, per la cui attuazione essa deve lottare, non è un'Europa chiusa contro nessuno, è una Europa aperta a tutti, un'Europa nella quale gli uomini possano liberamente far valere i loro contrastanti ideali e nella quale le maggioranze rispettino le minoranze e ne promuovano esse medesime i fini, sino all'estremo limite in cui essi sono compatibili con la persistenza dell'intera comunità».
E ancora con le sue parole: «Utopia la nascita di un'Europa aperta a tutti i popoli decisi ad informare la propria condotta all'ideale della libertà? Forse è utopia. Ma ormai la scelta è soltanto fra l'utopia e la morte, fra l'utopia e la legge della giungla».
E' pur vero - ne accennavo qualche riga fa - che è sempre esistito un pizzico di snobismo sin dagli esordi dell'idea europeista da parte del Regno Unito per la sua insularità, per il suo "Commonwealth", per il suo diritto costituzionale non scritto, per una certa supponenza culturale, per il solido legame atlantico con gli Stati Uniti. Tuttavia la direzione verso l'integrazione europea era arrivata sin quasi dall'inizio, già nel solco di personalità preveggenti come Winston Churchill, che nel 1946 disse: «Esiste un rimedio che... in pochi anni renderebbe tutta l'Europa... libera e... felice. Esso consiste nella ricostruzione della famiglia dei popoli europei, o in quanto più di essa riusciamo a ricostruire, e nel dotarla di una struttura che le permetta di vivere in pace, in sicurezza ed in libertà. Dobbiamo costruire una sorta di Stati Uniti d'Europa».
Ricordo che già nel 1961, quattro anni dopo i Trattati di Roma, sottoscritti dai sei Paesi fondatori della Comunità Europea, la Gran Bretagna - sotto il governo del Conservatore Harold Macmillan - chiese ufficialmente l'ingresso nel Mercato Comune. I negoziati vennero interrotti dopo che Charles de Gaulle - con il crudo realismo francese e antiche rivalità con la Gran Bretagna - mise in dubbio la volontà del Regno Unito di entrare davvero nella Comunità.
Solo nel 1967 la domanda inglese tornò sul tavolo e nel 1973 la Gran Bretagna entrò nell'allora "CEE" e, due anni dopo, referendum popolare di tutta la storia del Regno Unito, sotto il governo laburista di Harold Wilson, venne chiesto ai cittadini britannici se fossero favorevoli o meno alla partecipazione alla CEE con il quesito: «Do you think that the United Kingdom should stay in the European Community (the Common Market)?». Vince il "sì" con circa il settanta per cento dei voti.
Negli anni successivi, sino all'uscita ormai sancita, ci sono stati alti e bassi di diverso genere con momenti molto delicati, alcuni dei quali ho vissuto al Parlamento europeo e poi al "Comitato delle Regioni", ma solo con l'arrivo all'orizzonte della "Brexit" si è giunti al punto di rottura fatale.
Sono certo che un giorno verrà in cui - finiti questi anni cupi di un nazionalismo giacobino e sovranista, spero non sulle ceneri di una guerra continentale - il Regno Unito tornerà ad essere una delle locomotive dell'Unione europea.
Sono meno certo di sapere dove sarà in quel momento l'Italia.