Sarò fatto male, molto male ma ormai riconosco lontano un miglio tutti coloro che - pur in diversi schieramenti e con diverse responsabilità - al posto di piegare le decisioni che devono assumere al bene della "Cosa pubblica" guardano, invece, anche in Valle d'Aosta, alla propria futura rielezione, sapendo che le regole interne di limite dei mandati, che alcuni si sono dati, saltano poi alla bisogna come i tappi di champagne. E per fortuna regge quella norma regionale che limita la presenza continuativa nel Governo regionale, che considero la forma più logica di regolazione della presenza in ruoli apicali. Intendiamoci subito: è legittimo che qualunque eletto pensi all'umore dei propri elettori, ma sia chiaro che esiste un interesse generale, per cui le decisioni politiche e amministrative, quando utili e necessarie, non devono essere piegate a visioni di favore per gli uni e gli altri. Invece sappiamo bene che per alcuni questa logica clientelare e di favoritismo diventa un'ossessione, fatta di presenzialismo e di visibilità della serie «la sparo più grossa per apparire».
Leggo sul sito "liberale" della "Fondazione Bruno Leoni" l'evidente constatazione che la Finanziaria dello Stato 2019 ( che per ora dalle bozze non offre buone notizie per le finanze valdostane) ha un'impostazione propagandistica ed elettoralistica, che si gioca contro l'Europa, ma paradosso dei paradossi ciò si accompagna alla decisione dei gialloverdi al Governo di usare questo muro contro muro e le risorse a pioggia (tipo "reddito di cittadinanza", condoni fiscali, "quota 100" per le pensioni) per raccogliere consenso proprio alle elezioni europee. Ecco il testo: "Il governo Lega-M5S ha deliberatamente messo tutti, Unione europea compresa, in un vicolo cieco: una manovra espansiva senza una crisi in corso, che superasse sfacciatamente i parametri europei, non poteva non essere bocciata dalla Commissione. La ragione non sta solo nella "inadempienza particolarmente grave" che era già stata riscontrata, e sulla quale Bruxelles aveva chiesto chiarimenti ricevendo una sostanziale indisponibilità al dialogo. Alla radice della decisione «senza precedenti» comunicata dai commissari Valdis Dombrovskis e Pierre Moscovici c'è soprattutto «una questione di fiducia. Se viene erosa, ne sono danneggiati tutti gli Stati membri e la moneta unica». In sostanza, il cartellino rosso è stato alzato perché il governo ha deciso di andare «apertamente e consapevolmente contro gli impegni». La gravità della questione non sta allora solo nel mancato rispetto delle regole, ma nella volontà politica di andarvi contro. Il "fiscal compact" (che abbiamo sottoscritto) ci obbliga a convergere, attraverso un percorso concordato di riduzione del deficit, verso un rapporto debito/Pil pari al sessanta per cento. La scelta italiana di deviare da tale percorso dipende dalla ostentata volontà di adottare misure ("reddito di cittadinanza" e superamento della legge Fornero) che solo secondo il Tesoro stimoleranno la crescita, ma che, secondo tutti gli altri osservatori nazionali e internazionali, pubblici e privati, avranno se va bene meri effetti redistributivi, se va male effetti negativi rispetto alla crescita. Il Governo sta sostanzialmente sfidando l'Ue. Andare contro le regole non è una novità, in un'Europa dove tanti hanno negoziato deroghe e sconti. Ma sbandierare la propria volontà di ignorarle lo è, come lo è la formale contestazione della Commissione, necessitata, appunto, dall'atteggiamento del Governo. Lo Stato italiano ha tre settimane per riportare il progetto di bilancio in linea con gli accordi sottoscritti con l'Unione. Se non lo dovesse fare, si potrebbe aprire una procedura per deficit eccessivo, che potrebbe concludersi con la comminazione di una multa. Un percorso ancora inesplorato, nei suoi esiti più estremi. Salvini e Di Maio hanno già anticipato di non voler cedere, anticipando così la loro campagna elettorale per le europee. Ma in che condizioni può arrivarci, il Paese, alle europee?". Per me male e chi conta in un'ondata anti-europeista a favore dei sovranisti deve calcolare bene se questo avverrà. Certo, esiste anche un'altro scenario, che personalmente ritengo improbabile e che suona così: "Potrebbe essere il Parlamento, se si iniziasse l'iter di approvazione del bilancio, a cercare un riallineamento con i patti europei. Nella sua apparente inflessibilità, la scelta della Commissione potrebbe dare, in sede parlamentare, un'altra chance allo Stato. Nel corso dell'approvazione della legge di bilancio, il Parlamento, se davvero rispecchiasse l'interesse generale, potrebbe riallineare lo Stato agli impegni che esso stesso, vale la pena ribadirlo, ha assunto in sede europea. Alla maggioranza di governo, però, non interessa ricucire lo strappo. D'altronde, se la soluzione fosse quella che molti hanno in mente, cioè una patrimoniale, cadremmo dalla padella nella brace. L'unica morale, per ora, è che l'effetto immediato e concreto di questo braccio di ferro è la crescente sfiducia verso il nostro paese, che si sostanzia nell'aumento del costo dello spread. Costo che non ha bisogno di attendere l'avvio della procedura di infrazione". Sottoscrivo con crescente preoccupazione: già l'Italia - lo posso ben spiegare per la mia frequentazione nel tempo a Bruxelles - non gode sempre di una grande considerazione, ma un altro conto è dissipare tutto in favore di elezioni, invocando come lasciapassare la volontà popolare. Condivido sul punto l'inizio di un articolo di Giuseppe De Rita sul "Corriere della Sera": «Coltivo una insofferenza, non so quanto collettivamente condivisa: non ne posso più dell'eccessivo uso che si fa, nella dialettica politica, della parola "popolo". Tutto è del popolo (il governo, il premier, la manovra di bilancio), ma nessuno ha il coraggio di chiedersi cosa ci sia dietro quel generico "popolo". Per carità, il genericismo è obbligato quando si vuole dare valore politico a dinamiche sociali complesse, ma rischia di diventare solo un riferimento retorico (ai poveri, agli esclusi, agli oppressi), magari con una veloce incidenza nell'opinione pubblica, ma destinato ad una decrescente incisività nel medio termine». Se "popolo" è "populismo", allora speriamo di cambiare presto canale. Altrimenti, anche per il prezzo da pagare, vale la battuta agra di Ennio Flaiano: «I nomi collettivi servono a fare confusione. "Popolo", "pubblico"... Un bel giorno ti accorgi che siamo noi, invece credevi che fossero gli altri».