La politica per la montagna è sempre stata un mio rovello dovunque abbia avuto un ruolo istituzionale e, visto che non si vive solo di cariche elettive, continuo ad occuparmi di questa questione. Ciò avviene - e penso di non doverlo dimostrare perché preclaro - per la semplice ragione che chi è valdostano sa come, prima che emergesse il problema linguistico, a partire dal Regno d'Italia in poi (il bilinguismo valdostano era precedentemente francese-francoprovenzale), questo era dato fondante dell'Autonomia valdostana. Questa fu tema centrale nel rapporto millenario con Casa Savoia di cui seguimmo i destini politici sino alla nascita della Repubblica si basava su "privilèges" che avevano in larga parte - come ragion d'essere - il particolarismo di un territorio interamente montano.
Questo tratto distintivo di essere nel cuore delle Alpi (la geografia non cambia e vale ancora l'Intramontanismo espresso sin dal Medioevo "Vallis Augusta... est provincia non ultra nec citra, sed intra... Alpium montes collocata") ci pone al centro di questa necessità di capire come chi amministri risolva il problema di azioni che tengano conto di questo fattore alpino, territoriale come riflesso sulla "civilisation", come elemento che influenza tutta la vita quotidiana. Non si tratta né di un capriccio né di un'invenzione: chi come me ha avuto il privilegio di vedere la Valle da Roma, da Bruxelles e da Aosta potrebbe moltiplicare gli esempi di scelte politiche, normative nazionali e comunitarie, atteggiamenti verso la nostra comunità che disattendono questa logica di adesione con decisioni che possano essere efficaci e rispettose del territorio particolare in cui viviamo e delle attività, qualunque esse siano, dei suoi abitanti. Ma questo deve avvenire, specie sulle Alpi, fucina di idee e punto di riferimento per tutte le montagne europee e persino del mondo, in una logica di interscambio e di dialogo fra le vallate alpine per avere linee comuni di intervento e di indirizzo. In questa fase storica, il clima non pare buono: il centralismo statale è evidente (di regionalismo nessuno parla più, figurarsi di federalismo), le frontiere si irrigidiscono e questo è un dramma per chi si sente transfrontaliero per natura, si diffonde un nazionalismo fascistoide che nuoce ad ogni apertura, si ragiona sempre di più in termini di voti e non di eguaglianza e questo colpisce comunità demograficamente minori e con peculiarità investite da conformismi planetari con modelli urbani prevalenti. Noto con dispiacere che molte istanze della montagna si sono rifugiate in modelli convegnistici a perdere e a getto continuo, così come alla filosofia del comunicato stampa (una montagna di comunicati stampa...) come elemento ossessivo per far sapere di essere vivi. Mi sembra una specie di rifugio, forse comprensibile in una fase di difficoltà, ma da certe forme di sopravvivenza non scaturisce neppure una scintilla. Sul tema, periodicamente, mi scrivo con il mio amico intellettuale occitano Mariano Allocco, che di questi tempi mi ha rievocato in una mail scritta «dopo essere andato a raccogliere le patate» il più giovane dei presenti a Chivasso per la celebre "Dichiarazione dei Popoli alpini" del dicembre del 1943: «Caro Luciano, nel lontano '94 avevo incontrato Gustavo Malan a Torre Pellice, abitava sopra il ristorante "Flipòt", eterodosso lui in una valle eterodossa. Discutevamo del programma della giunta di c.m. che stavo preparando e lui mi aveva raccomandato di proporre un "Patto di sindacato", così lo chiamò, tra montagna e pianura perché "altre vie non ci sono". Il "Patto delle Alpi Piemontesi" che avevamo presentato al Forte di Bard con te presidente derivava da quella idea. Non se ne è fatto nulla, la pianura non ha capito l'importanza di un confronto alla pari. Le regole di un "mercato" che ha orizzonti immediati e una politica che li pone non oltre le elezioni prossime, hanno portato ad un rapporto finalizzato ad arraffare quanto di redditizio quassù è rimasto. La forza lavoro è stata presa, ora rimane ambiente, dislivelli, risorse rinnovabili. Per me è evidente la deriva di "colonialismo interno" nei confronti delle Alpi, parlo solo delle Alpi perché qui ci sono ancora risorse e si può raschiare il fondo del barile. Qui c'è l'acqua e ci sono dislivelli che la rendono preziosa, ci sono boschi che non valgono solo come legname e energia, tra poco saranno "piazzabili" come riserve di carbonio. Poi c'è la necessità di avere un parco giochi per masse alienate... Se negli anni '50 si erano fatte fallire migliaia di aziende trasformando in operai quelli che erano imprenditori sui monti senza problemi (bilancio economico rimane da fare), ora le cose sono state organizzate meglio. Si sono fatte implodere le istituzioni locali, le Comunità Montane sono state sostituite da improbabili e impresentabili accrocchi organizzativi, si stanno soffocando i piccoli Comuni, sono stati recuperati nelle valli i "nativi" a cui far luccicare un conato di carriera politica in cambio di un atteggiamento "collaborazionista", si è messo in un cassetto la legge delle montagna, la numero 97 del '94 che all'articolo 1 parla di "insopprimibili esigenze di vita civile delle popolazioni residenti". Quella legge poneva al centro delle politiche montane l'uomo che le abita, ora al centro si è posto l'ambiente, l'uomo pare un impaccio. Quello che è più significativo e che "marca" l'approccio coloniale però è l'atteggiamento ecumenico alle Alpi da parte della politica. La parte egemone sul piano politico confligge anche in modo duro, nei confronti delle Colonie, che sia una parte o l'altra a gestire il potere verso il Monte non cambia nulla. La parola "montagna" non si è sentita prima in campagna elettorale e ora è la grande assente. La cosa che più mi lascia perplesso è che se qualcosa possono ancora arraffare quassù, a breve termine si accorgeranno che l'anello debole è Torino, è il modello organizzativo basato sull'urbanizzazione che arriva dalla prima industrializzazione denuncia limiti evidenti e allora il patto di sindacato di cui parlava Gustavo dovrà essere messo sul tavolo. Questione antica, nel 1902 l'onorevole Luchino Dal Verme diceva che "in Italia non è solo questione di Nord o di Sud, ma di Monte e di Piano"». Grazie, Mariano!