Viviamo tempi di memoria cortissima. Perdiamo, progressivamente, l'uso della memoria, perché sostituita con facilità da quanto le tecnologie digitali ci consentono di incamerare. Certi strumenti contengono tutto quel che serve per sapere dei fatti passati, ma capita lo stesso a troppi cittadini di essere consapevoli delle vicende più recenti, non ricordandosi però di quel che è capitato persino pochi anni fa. Trovo, per esempio, un articolo del costituzionalista Michele Ainis del 2015, in cui così scriveva in un primo pezzo: «Diciamolo: è un cambiamento epocale. Sul versante delle istituzioni, timbra il passaggio dalla democrazia parlamentare a una democrazia esecutiva, perché l'Esecutivo s'impadronisce dello stesso Parlamento. Sul versante sociale, è il funerale della concertazione, in nome del rapporto diretto fra il leader e i propri elettori. Sul versante culturale, è la crisi del pluralismo, del frazionismo, dell'assemblearismo, nonché di tutti gli altri "-ismi" che ci aveva recato in dote il Sessantotto: ne era sopravvissuta talvolta una caricatura, adesso non rimane neanche quella».
Con chi ce l'aveva? Ce l'aveva con l'appiattimento politico sul leader di turno, allora era lo scoppiettante rottamatore Matteo Renzi, poi rottamato, malgrado la giovane età. Aggiungeva amaro Ainis: «Sicché dobbiamo rassegnarci: nel monoteismo che avanza siamo tutti soli davanti al nostro Dio. E quel Dio uno e bino è al contempo il nostro dittatore, sui banchi di scuola, nei luoghi di lavoro, nelle cabine elettorali. Vabbè, confesso: piace anche a me la dittatura. Ma temperata dal tirannicidio». Non si può dire che mancasse un aspetto previsionale, perché così è stato. Ne ho già scritto tante volte di come la brevità dei leader che cadono nella polvere con facilità sia un tratto distintivo dell'epoca "usa e getta" e di quella tracotanza che travolge chiunque acquisisca un potere assoluto, reso ancora più magico dall'incalzare delle nuove tecnologie della comunicazione. Roba che emerge anche dai ruderi del passato, pensando ad una frase di Leo Longanesi di grande attualità: «Abuso di potere, mitigato dal consenso popolare: ecco l'ideale della nostra democrazia». Questa idea del voto che dà dei superpoteri e serve da lavacro di ogni colpa, spesso utilizzato dall'uomo della Seconda Repubblica per definizione, Silvio Berlusconi, anche lui ancora arrancante sulla scena, dopo clamorosi recuperi di popolarità. Ora, invece, la situazione italiana è davvero singolare, perché viviamo in una triarchia (Giuseppe Conte, presidente del Consiglio ed i due vice, Matteo Salvini e Luigi di Maio), che è in realtà una diarchia perché il timone ce l'hanno, alternandolo per ora con una maestria che ogni tanto fa scintille, i due vice presidenti, che sono i leader, rispettivamente, dei leghisti e dei pentastellati. Non potendo reclamare il vertice di Palazzo Chigi hanno scelto un impolitico che tiene la sedia più alta senza fare ombre. La diarchia non è una roba nuova - a anche se nel sistema costituzionale italiano non è prevista - e i più colti potrebbero citare l'antica Sparta, Roma stessa, persino Bisanzio, per non dire di situazioni come quelle della Repubblica di Genova. Oggi sopravvive una diarchia a San Marino e nel Principato di Andorra. Per cui il presidente del Consiglio italiano, Giuseppe Conte, serve per elementi di rappresentanza, come avvenuto due giorni fa all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, il principale organo dell'ONU. In dieci minuti, il premier ha parlato in questo consesso dell'azione del governo italiano. In uno dei passaggi del discorso, Conte ha detto che «quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo, amo ricordare che sovranità e popolo sono richiamati nell'articolo 1 della Costituzione italiana». Lo avesse detto un idraulico o un elettricista il passaggio sarebbe stato poco commentato, ma avendolo pronunciato un avvocato, giurista con esperienze di docenza, c'è da restare esterrefatti, perché la Costituzione non è strumento utilizzabile a propri scopi, avendo una genesi ed una storia. "Sovranismo" è il parente arrabbiato e polemico della "sovranità", che è invece il volto buono di una collettività che si organizza - nel nostro caso - in una Repubblica democratica, ma senza gazzarre con gli altri Paesi e con l'Europa. La "sovranità appartiene al popolo", declina la Costituzione, che non è però una maggioranza elettorale ma l'insieme dei cittadini, ed il "popolo" non è il "populismo", che è invece un atteggiamento strumentale con cui si cerca di aggregare consenso con proposte demagogiche di facile presa. Caso di scuola di entrambe le storture è l'improvvida Finanziaria 2019 che sortirà per l'Italia isolamento politico in Europa, una batosta sui mercati finanziari ed un impoverimento dei cittadini in barba a robe invedibili come il "reddito di cittadinanza" e la manovra delle pensioni. Insomma: davanti alle Nazioni Unite Conte ha sbagliato e lo ha fatto con una platea che conosce bene la differenza fra certe parole. Ma in fondo, dimostrando di non conoscere la Costituzione su cui ha giurato, ha solo ripetuto le paroline chiave su cui si regge la sua presenza/assenza a Palazzo Chigi.