In moltissime occasioni in politica - ed ho avuto il piacere che mi venisse riconosciuta la dote - ho dovuto cercare un compromesso per trovare una soluzione su di un problema che non si risolveva, perché veniva visto diversamente con due o più posizioni contrapposte e bisognava uscire da una situazione di impasse. Poteva trattarsi di un documento riassuntivo, della scrittura di una norma di legge, della decisione su come affrontare un dossier, di smussare gli angoli quando i toni trascendevano e ci si allontanava dalla questione. Ho imparato di conseguenza - perché l'esperienza serve - che questa azione di ricerca di punti d'equilibrio funziona solo se si discute in buona fede, se si vogliono davvero superare gli ostacoli, se si usa il buonsenso contro le impuntature personalistiche o ideologiche. Le persone intelligenti si applicano, i cretini, i presuntuosi e chi ha interessi materiali in gioco non lo fanno: restano lì, come dei quadri, appesi alle loro convinzioni e la furberia spesso adoperata del rinvio delle decisioni, anche quando sono mature, è il suggello della loro malafede.
Leggo Antonella Blanco sulla rivista "Tessere", che ricorda come "compromesso" abbia chiari e scuri nel suo uso: «Dal latino "compromissum" da "compromittĕre", composto di "con-" e "promittĕre, promettere", "obbligarsi insieme"; nel suo significato più generico è un accordo, un impegno reciproco assunto da più persone di procedere a un'azione d'interesse comune. Ma - più puntualmente - il convergere della volontà di due o più persone verso un determinato comportamento nel reciproco interesse implica spesso una transazione, un accomodamento, un compromesso appunto. "Si viene a un compromesso" quando si arriva ad un accordo tra le opposte esigenze di due parti in contrasto per cui ciascuna delle due cede qualche cosa per risolvere la controversia. Da qui si intuisce facilmente l'uso del termine nel linguaggio corrente nel senso di contratto preliminare, soprattutto di compravendita. Meno immediato invece è il viraggio verso la sua accezione negativa: "scendere a compromessi" o "fare un compromesso con la propria coscienza" vuol dire recedere parzialmente dai propri principi; chi "vive di compromessi" si ingegna in espedienti non sempre o non in tutto onesti, mentre "una persona compromessa" è di solito coinvolta in faccende poco pulite; e ancora, ci si trova davanti a qualcosa di irrimediabilmente danneggiato e non più risanabile se "la situazione è ormai compromessa". Questo riportare, da parte del termine in questione, al concetto di messo a rischio, a repentaglio o in pericolo, ha a che fare con qualcosa di più arcaico, come la paura della perdita della propria integrità per esempio; la via di mezzo implica mescolamenti, ibridizzazioni, fusioni non sempre organiche di elementi eterogenei. Cedere qualcosa di sé viene vissuto più spesso come una perdita anziché come un fare spazio per accogliere il diverso e il nuovo; una distorsione comune, un “vizio di forma” si potrebbe dire, che, in disaccordo con i fondamenti della fisica, impedisce la crescita, l'evoluzione, il movimento». Io sono per l'uso in chiaro, sapendo che talvolta qualcosa bisogna lasciare sul campo, in nome dell'onore della promessa condivisa, dando positività ad una parola svilita dal suo uso maldestro, quando invece è arte nobile, se - purtroppo fermi su decisioni impellenti - e si trova invece la spinta ragionevole per avanzare. Forse ci vorrebbe l'uso di maggior "diplomazia", anch'essa parola di grande profondità. Scriveva ieri Maurizio Caprara sul "Corriere della Sera" e con questa parziale citazione chiudo il ragionamento: «Oscilla tra l'arrogante e il puerile la perseveranza con la quale componenti del governo insistono nel minacciare di togliere, o tagliare, fondi che lo Stato è tenuto a pagare in base a norme per niente immotivate e non sempre aggirabili. Sta diventando un vizio costante, e sorprende che chi non è ancora collaudato nella guida di istituzioni nazionali eviti di domandare a chi ha competenze in materia se una via è percorribile o conduce in un fossato. Un po' come converrebbe consultare almeno le "Pagine gialle" prima di dare per inesistente un museo. A rimetterci è la credibilità dell'intero Paese, e questa dovrebbe stare a cuore a tutti al di là delle diversità di opinione. (...) Governare non è una partita a carte tra ragazzini. In politica estera per ottenere successi occorrono alleanze e per costruirle serve essere credibili. Non battere i piedi e minacciare di andare via. Governare non consiste, o non può consistere solo, in un diritto di palcoscenico. Significa doversi assumere responsabilità. Che questo salto di qualità tardi è un danno. Per tutti noi». Ciò vale anche la politica interna in ogni luogo - piccolo o grande - dove si debba fare un passo avanti, chiedendo qualche passo indietro quando si rischia il peggio, che è la paralisi, troppo spesso ormai accompagnata da liti da pollaio, amplificate dalla vanità dei "social" e dalle logiche di perenne campagna elettorale.