Ci vorrebbe la penna "alla Gogol" di Paolo Villaggio e la capacità di immedesimarsi nel suo personaggio Ugo Fantozzi, che ha segnato un'epoca con la sua maschera ed il suo linguaggio, per descrivere come ci si possa porre di fronte al diktat della gentil consorte nel cuore dell'estate: «facciamo un salto all'Ikea». Verrebbe da rispondere con un tranchant: «Agosto, moglie mia non ti conosco» e darsi alla macchia. E, invece, si sale in macchina... Ricordo che il fondatore di questi giganteschi store di mobili e oggettistica da casa si chiamava Ingvar Kamprad ed è morto nel gennaio di quest'anno alla veneranda età di novantun anni. Ricordo macabri commenti di chi si chiedeva se anche la sua bara sarebbe stata da montare, prima delle esequie.
Faceva meno ridere il suo passato nazista: non solo era stato iscritto al partito nazionalsocialista svedese con la tessera numero 4.014, ma fece parte del gruppo d'azione "Sss" che aveva il compito di arruolare nuovi camerati, fra il 1941 e il 1945, e medesime simpatie dimostro nel dopoguerra mentre diventava miliardario ma dai comportamenti parchi. Ikea - ovviamente sopravvissuta alla sua scomparsa - è un impero che impiega 190mila persone, dislocato in varie parti del mondo e genera un fatturato di 38 miliardi di euro. Kamprad aveva fondato Ikea a diciassette anni, vero esempio di self made man. Il nome della multinazionale è l'acronimo delle iniziali del suo fondatore Ingvar Kamprad e di "Elmtaryd" ed "Agunnaryd", la fattoria ed il villaggio svedese di nascita. Ikea viene inizialmente costituita nel 1943 come ditta di vendita per corrispondenza di articoli di uso quotidiano: penne, fiammiferi, orologi, bustine di semi e decorazioni. Kamprad, diciassettenne, decise di utilizzare la somma di denaro ricevuta dal padre come premio per lo studio per aprire una propria attività. Nel 1963, venne aperto a Oslo, in Norvegia, il primo negozio al di fuori della Svezia e, nel 1965, Ikea arrivò alla capitale svedese Stoccolma, dove il gran successo riscosso fin dal giorno dell'inaugurazione sancì definitivamente l'ingresso sul mercato in grande scala. Da lì il successo e la diffusione anche vicino a noi. Da cui la frase «facciamo un salto all'Ikea», che più che una compera diventa un pellegrinaggio, che per l'uomo ha la valenza del cane, al guinzaglio nello snodarsi del percorso della mobilio, ma anche - di sottofondo - una prova del fuoco con le proprie partner, visto che un maschio dovrebbe ex post - fatto l'acquisto - dimostrarsi un vero bricoleur, sapendo montare quanto acquistato negli scatoloni. Io - lo confesso - non sono un vero uomo: già non riesco a pronunciare i nomi della mercanzia in svedese (quando un tavolino si chiama "Kvistbro" ed un divano "Färlöv") e non sono neppure in grado di destreggiarmi nei montaggi per una negazione annunciata del "fai da te" ed anche per un'atavica convinzione che le istruzioni possano essere bypassate da un acume prenatale. Ipnotico e compulsivo appare l'atteggiamento di molti, trascinati nel vortice di stanze fittizie ricostruite ad hoc in una primigenia logica da self service ormai turbata da alcuni esperti a disposizione e persino da montatori pronti a fare le veci dell'acquirente. Nessuno dei quali ha la prorompente carica commerciale ed umana dei mobilifici che irruppero nelle televisioni private dagli anni Settanta con quel geniale biellese, Giorgio Aiazzone (morto anzitempo in un incidente aereo) ed il suo cantore sullo schermo Guido Angeli (l'urlo era «Provare per credere!» e lo slogan da scompisciarsi «La scelta più Biella del mondo»). Ci sono stato: ho girato, ho osservato folle, guardato prodotti, fatto gli acquisti e mangiato le polpettine svedesi e comprato salmone scandinavo. Insomma: copione ben noto.