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31 lug 2018

Senza il Parlamento?

di Luciano Caveri

«Oggi grazie alla Rete e alle tecnologie, esistono strumenti di partecipazione decisamente più democratici ed efficaci in termini di rappresentatività popolare di qualunque modello di governo novecentesco. Il superamento della democrazia rappresentativa è inevitabile». Lo ha sostenuto giorni fa, intervistato da "La Verità", Davide Casaleggio che ha aggiunto: «il Parlamento ci sarebbe e ci sarebbe con il suo primitivo e più alto compito: garantire che il volere dei cittadini venga tradotto in atti concreti e coerenti. Tra qualche lustro è possibile che non sarà più necessario nemmeno in questa forma». Ho letto queste cose quando ero ancora in vacanza e naturalmente ognuno è libero di dire quel che vuole a questo mondo, ma Casaleggio non è uno qualunque: ha ereditato dal papà Gianroberto quella "piattaforma" definita "Rousseau", che è il cervello pensante delle strategie politiche dei "Cinque Stelle", il partito più votato in Italia nelle ultime elezioni, la cui struttura di comando è davvero un unicum nel panorama politico.

Scriveva ieri Mattia Feltri nel suo appuntamento quotidiano su "La Stampa", più esteso del solito, perché non raccolto nella sola prima pagina del giornale: «"I modelli novecenteschi stanno morendo. Dobbiamo immaginare nuove strade e senza dubbio la rete è uno strumento di partecipazione straordinario". La considerazione, proposta da Davide Casaleggio nell'intervista concessa l'altro giorno a Mario Giordano per "La Verità", è una delle più sensate degli ultimi anni. Decisamente più insensate sono le reazioni al successivo pronostico: la democrazia diretta si affermerà gradualmente sulla democrazia rappresentativa, e in capo a qualche lustro i parlamenti rischiano l'estinzione. Forse era niente più che un'analisi, e nemmeno inedita; è diventato niente meno che un progetto totalitario. Da Forza Italia e dal Partito Democratico, cioè dai partiti più tradizionali e sempre meno favoriti degli elettori, si è alzato un pigro allarme antifascista. Pigro perché prevedibile (la dittatura di uno è pericolosa quanto la dittatura delle masse, come si sa) e soprattutto sterile: la ciccia sta nella crisi del sistema parlamentare, evidente da un bel po'. Le leggi ormai le fanno i governi per decreto e le impongono coi voti di fiducia, in nome della rapidità e dell'efficacia richieste dai tempi. Deputati e senatori, cui spetterebbe il compito di legiferare, si limitano a pigiare i tasti secondo gli ordini. Le prime polemiche per la confusione di ruoli risalgono all'ultimo governo Prodi (2006-2008). La situazione è progressivamente peggiorata e, poco più di un decennio dopo, i parlamentari assistono al dissolversi del loro potere, a bocca aperta e muta, quasi con gusto necrofilo».
Salto alle conclusioni: «Ecco, i modelli novecenteschi stanno evaporando. Bisogna immaginare nuove strade, dice Casaleggio, e sono strade su cui ci si sta inoltrando. Internet ha cambiato le relazioni sociali, la produzione, il lavoro, lo shopping, il tempo libero, e comincia a modificare il modo di fare politica. A questo punto le possibilità sono due: o si prova o governare il fenomeno per preservare la democrazia oppure, gridando al Duce, si lascia fare ai pochi già avvantaggiati, con le loro piattaforme e i loro metodi poco limpidi. E finché non sarà troppo tardi». Ho vissuto di persona la crisi del parlamentarismo, la sua crescente delegittimazione, causata non solo da elementi esterni ma da logiche regolamentari inadatte ai tempi. Sul "Corriere della Sera" Pigi Battista, dal canto suo, ha ricordato che «la democrazia diretta di Rousseau oliò le ghigliottine del totalitarismo» e scrive: «Si dice di Davide Casaleggio, esattamente come del padre, che sia un "visionario", con la testa rivolta al futuro. Forse, invece, la testa del guru ereditario dei "Cinque Stelle" è girata all'indietro. Per esempio ai tempi della Rivoluzione culturale maoista, quando le Guardie Rosse pensavano di esercitare la "democrazia diretta" con il linciaggio dei professori costretti a indossare in piazza cappelli con le orecchie d'asino e a spedire brutalmente i dissidenti nei cosiddetti campi di "rieducazione". Ora, in un'intervista concessa a Mario Giordano per "La Verità", Davide Casaleggio dice in modo più esplicito del solito che la democrazia diretta e non rappresentativa "digitale" è l'unico futuro della democrazia e che addirittura il parlamentarismo ha gli anni contati, soppiantato dalla Rete: "Tra qualche lustro non sarà più necessario". Ma la fine del Parlamento non è una nuova forma di democrazia, è la fine della democrazia in quanto tale». Anche Ezio Mauro su "Repubblica" aveva dedicato il suo editoriale alle parole del giovane Casaleggio, mettendo in guardia sui rischi che possono nascondersi in piattaforme digitali che pretendano di gestire la partecipazione politica dei cittadini: «Quanto più dovesse crescere il meccanismo della democrazia diretta attraverso le piattaforme digitali sul modello Rousseau, nascerebbe il problema del controllo di quei dati, del loro utilizzo, della garanzia della privacy degli utenti, del potenziale politico e commerciale che in poco tempo quel sistema di raccolta ed elaborazione di informazioni acquisirebbe: un problema di democrazia, evidentemente, che i Parlamenti per la loro parte hanno risolto, aprendo al pubblico e alla stampa le loro sedute. Tra le intermediazioni che saltano nella pretesa di democrazia diretta, c'è anche quella assembleare, la forma del dibattito attraverso cui si prende una decisione, il concorso di opinioni diverse, l'obiezione, la critica e l'opposizione delle minoranze. C'è l'ascolto, la pubblica combinazione di differenti correnti di pensiero. E c'è infine l'intermediazione delle competenze, annullate dalla solitudine anonima dell'uno-vale-uno, davanti al computer». Una lettura diversa, e certo non banale, della lunga intervista rilasciata da Casaleggio, la fornisce il politologo Alessandro Campi i cui interventi troviamo pubblicati sul "Messaggero". Campi prova a guardare la situazione da un angolo diverso: «Parlando del "M5S" viene facile dire che Beppe Grillo è un uomo di spettacolo che troppo spesso si diverte a scandalizzare e a provocare. Che nel movimento c'è una vena d'intolleranza e di settarismo che cozza con una visione liberale della politica. Che la sua base elettorale è spesso motivata dal risentimento sociale e da un eccesso di rabbia. Tutto vero. Ma dall'intervista si capisce anche che c'è in questo fenomeno politico un elemento di sfida culturale, un nucleo ideologico-progettuale, che i suoi avversari si ostinano a trascurare preferendo prendersela con il dilettantismo o la facile demagogia dei suoi capi. Dire, come appunto fa Casaleggio, che il Parlamento - inteso come luogo "fisico" di mediazione e rappresentanza degli interessi e come organo deliberativo - nel futuro prossimo non servirà più, ovvero svolgerà funzioni molto diverse dalle attuali, è solo eversione? E se fosse invece un futuribile sul quale, in primis chi si occupa di politica e istituzioni, dovrebbe provare a ragionare? Su quali basi logiche e storiche possiamo affermare che la democrazia rappresentativa, così come l'abbiamo conosciuta sostanzialmente negli ultimi cento anni (peraltro lungi dall'essere ancora oggi un regime universale), rappresenti una forma politica irreversibile e immodificabile, la cui unica alternativa sarebbe rappresentata dall'autoritarismo?». Insomma: i commenti sullo stesso fatto appaiono diversi. Che la democrazia si evolva è indubbio ed è pure necessario: nulla resta mai immutabile e i regimi politici si sono modificati attraverso i secoli. Ma a dettare le regole non può essere una semplice logica di mercato, ma norme costituzionali che evitino derive autoritarie e garantiscano equilibrio fra i poteri. Detto così sembra banale, ma non lo è affatto.