Scoprire l'acqua calda. Così mi vien da pensare di fronte alle rivelazioni del sistema di "Facebook" o di società ad esso collegate di controllo minuto dei propri utenti con l'utilizzo dei dati personali e profilatura usata a vari scopi, compresi usi politici attraverso la diffusione di materiale che agisca in modo persuasivo. Chi si stupisce non so se viva nel mondo reale o chissà dove, pensando poi al fatto che nella politica il cinismo per raccogliere voti non è una novità e la comunicazione politica se ne alimenta. Così i diversi strumenti che usiamo sul Web, in parte interconnessi per le proprietà concentrate che già agitano le "Autorità per la Concorrenza" ai diversi livelli, utilizzano da sempre sistemi autorizzativi ad ampio spettro e che ci fosse qualche zona grigia e comportamenti borderline era evidente anche al più sprovveduto degli utenti. Siamo spiati, controllati, venduti, programmati e via di questo passo e le difese restano davvero di cartapesta.
Quando sento dire da Davide Casaleggio - nuovo guru, dopo il papà, dei pentastellati - che il Web è il nuovo orizzonte della Democrazia mi chiedo - alla Cartesio - «Sogno o son desto?». Il Web è uno strumento, come avviene dalla clava del tempo delle caverne, quando poteva essere adoperata per darla in testa a un mammut per cibarsene, per allontanare una tigre dai denti di sciabola oppure per uccidere un membro della tribù della caverna vicina. Buono o cattivo è l'uso che ne facciamo. Perciò che si ritenga, pregiudizialmente, positivo un qualunque strumento umano è un'affermazione priva di senso e non mi metto ad elencare - perché Internet è ab origine fra queste - tutte le invenzioni a scopo bellico, convertite in parte nel tempo a balzi in positivo della civiltà umana. Per cui dire: la Rete è buona per la Democrazia è un'affermazione apodittica, cioè non dimostrabile, proprio sulla base di un semplice giretto sul Web, dove accanto ad usi meravigliosi e migliorativi della vita quotidiana abbiamo invece autentici orrori, che illustrano bene come il fuoco possa servire per scaldarci o per creare un terribile rogo. Ha scritto, anni fa, Sébastien Castel: «Con l'avvento dei social network, della messaggistica su cloud ("Gmail" ne è il miglior esempio), dell'archiviazione di file in cloud eccetera, abbiamo perso il controllo sui nostri dati. Da ciò si evince che anche i dati che ci sembravano privati fino a pochi anni fa, ora si trovano schedati in qualche server dall'altro capo del mondo. Le società e i governi se ne servono. Quel che è peggio, è che abbiamo dato il nostro permesso (nel momento in cui abbiamo cliccato sull'opzione "Accetto", dopo aver passato tre ore a leggere le condizioni e i termini di ciascun servizio). Detto questo, potremmo non avere nulla da nascondere... Ma come ha detto Tristan Nitot durante una conferenza: "Non fate nulla di illegale quando siete in bagno, normalmente, soprattutto in casa vostra. Eppure continuate a chiudere la porta chiave"». E' la reazione che ho quando qualche amico discetta con me sui rischi di essere spiato: sino a prova contraria non ho nulla da nascondere, ma inquieta l'idea di essere schedato. Ho trovato, ad esempio, tristissimo smettere di postare in vari "social" le foto dei miei figli, quando erano piccoli, perché certo materiale può diventare preda di sporcaccioni della Rete. In effetti sul Web non ci sono solo eventuali zone d'ombra delle persone, ma ci sono dati sanitari, informazioni familiari, questioni di lavoro, aspetti i più vari che dovrebbero essere tutelati dalle leggi ferree della privacy, che sembrano squagliarsi come neve al sole per le nostre autorizzazioni o per le attività invasive contrarie alle norme e pure al buonsenso nel nome del profitto, se non della logica già evocata della strumentalizzazione. In campo elettorale ciò pesa su quella larga parte di opinione pubblica che è alla mercé di fake news e di informazioni a scopo strumentale. Ogni giorno a me capita di dover discutere con persone appositamente disinformate che pensano - su singoli temi - di essere informatissime, «perché l'ho letto sul Web», in assenza di qualsivoglia capacità di verificare le fonti all'origine dell'informazione stessa. Ogni discussione, rispetto a chi si convince di sapere, spesso con aspetti cospirativi che nasconderebbero verità che a loro appaiono rivelatrici, si rivela un'inutile perdita di tempo. Siamo di fronte ad un fideismo che preoccupa per l'incapacità di reggere i confronti, ritenendo di avere una scienza infusa inconfutabile. Il Web può, da questo punto di vista e in assenza degli strumenti culturali, diventare un pericolo per la Democrazia, per la facilità di influenzare tendenze e opinioni, specie in un momento nel quale si sono fragilizzate quelle conoscenze dei meccanismi istituzionali e partecipativi un tempo acquisiti anche per il ruolo essenziale di partiti e movimenti. Per cui immaginare che la cultura digitale non sia solo la scoperta all'uso delle sue diverse potenzialità, ma anche - come nei bugiardini delle medicine - la spiegazione dei rischi, delle incognite e delle strumentalizzazioni dei comportamenti dovrebbe diventare materia di insegnamento e di formazione. Scriveva ieri su "HuffPost" Claudio Giuia: «Le notizie false spacciate per vere agiscono a largo spettro, puntando sul fatto che la disinformazione viaggia veloce grazie alle condivisioni sociali ("Facebook", "Twitter", "Instagram", "YouTube", "Snapchat", eccetera). Diversamente, gli specialisti della società controllata dal controverso miliardario suprematista americano Robert Mercer attraverso la holding "Strategic communication laboratories" puntano a raggiungere il singolo consumatore o elettore con messaggi personalizzati - non necessariamente notizie false - grazie alla puntuale conoscenza del suo profilo, dei suoi desideri e aspirazioni, delle sue tendenze, delle sue scelte del passato e delle sue tendenze attuali».