«E' meglio essere ottimisti ed avere torto, piuttosto che pessimisti ed avere ragione». Questa massima di Albert Einstein, che porta in sé una saggezza antica, andrebbe appuntata da qualche parte. Ci riflettevo rispetto alla mia naturale attitudine di essere ottimista, stato d'animo e di pensiero che non sempre è bene comunicare, perché sembra - specie di questi tempi - molto meglio indulgere a un qualche pessimismo. Sono il primo a dire che troppe cose - anche nella piccola Valle d'Aosta - stanno andando malissimo, me tendo in qualche modo a guardare avanti non per vaghezza, ma perché bisogna, semmai, rimboccarsi le maniche. E per farlo tocca guardare sempre al lato costruttivo, piuttosto che indugiare sulle macerie.
Una personalità molto discussa del Novecento, Ernst Junger, ha scritto e tocca pensarci sopra: «L'ottimismo può raggiungere strati in cui il futuro, ancora assopito, viene fecondato. In tal caso lo si incontra come un sapere che raggiunge profondità maggiori che non la forza dei fatti - che addirittura può suscitarli. Il suo fulcro è più nel carattere che nel mondo. Un ottimismo fondato su queste basi va apprezzato in se stesso, dal momento che proprio la volontà, la speranza e la stessa prospettiva futura devono dare a chi lo professa la forza di resistere nel mutevole corso della storia e dei suoi pericoli». Chi è nato nel Novecento e pensava di lasciarsi alle spalle questo secolo pieno di problemi, si ritrova - alla fine di questi anni "dieci" del nuovo secolo e del nuovo millennio - con così tanti problemi da doversi corazzare per mantenere ragionevoli speranze. Ma tocca farlo. Mentre mi almanaccavo rinvengo su "Le Parisien" questa intervista di Julien Solonel allo scrittore allo scrittore Eric-Emmanuel Schmitt, descritto come «incorrigible optimiste», che così si esprime: «Je suis un optimiste par nature: dès que je suis arrivé sur Terre, j'ai souri, heureux d'être là. Par la suite, la vie s'étant chargée de me donner des coups et de me confronter au mal, j'ai décidé de construire mon optimisme, seule façon d'apaiser la douleur, l'indifférence et l'injustice». Poi scava un pochino di più: «Il y a vingt ans, on se heurtait à un préjugé qui assimilait le pessimisme à l'intelligence. Cela faisait de l'optimiste un imbécile, qui ne voyait pas la réalité ou, pire, la niait. "Le comble de l'optimisme, c'est d'entrer dans un grand restaurant et de compter sur la perle qu'on trouvera dans une huître pour payer la note", écrivait le romancier Tristan Bernard. Mais, depuis, le regard de la société a évolué». Ed ecco la chiave di lettura: «Après la seconde guerre mondiale et ses horreurs, il était normal et sain de douter de la capacité de l'humanité à progresser. Ces événements ont eu un tel retentissement que le pessimisme a fini par ne plus être remis en question. Il est presque devenu une idéologie». Sul punto: «L'optimiste part du même constat que le pessimiste, à savoir que le monde est traversé de violences, de manques, de bêtises. Bref, que ça ne va pas. Mais, alors que le pessimiste, par une forme de lâcheté, accepte cet état de fait, voire en rajoute en disant que demain sera pire, l'optimiste se montre héroïque. Il retrousse ses manches et, par l'action, trouve des raisons d'espérer». Mi ritrovo in un meccanismo di salvaguardia: «Je n'oublie jamais que l'on peut regarder la même vie sous l'angle de la joie ou de la tristesse. Joie: rapport au plein. Tristesse: rapport au vide. C'est comme un interrupteur. Au lieu de ressasser ce qui me manque - des êtres chers qui ont disparu, du temps, de l'argent -, je m'applique à regarder ce que j'ai et à m'en contenter. Voilà un exercice quotidien, d'autant plus difficile dans une société de consommation régie par la comparaison, la jalousie, la frustration». Ci sono, insomma, buone ragioni per non essere pessimisti e per tentare, al contrario,la strada stretta, impervia, tutta in salita dell'ottimismo. Perché di questo si tratta, che sia nella quotidianità come nell'attività politica: non esiste, per capirci, un ottimismo astratto, ma un ottimismo concreto. Sulla partecipazione politica vale quel che diceva in suo spettacolo Giorgio Gaber: «Capire che un uomo non può essere veramente vitale se non si sente parte di qualcosa. Abbandonare anche il nostro appassionato pessimismo e trovare finalmente l'audacia di frequentare il futuro con gioia».