Utilizziamo i cookie per personalizzare i contenuti e analizzare il nostro traffico. Si prega di decidere se si è disposti ad accettare i cookie dal nostro sito Web.
03 feb 2018

Sant'Orso specchio della comunità

di Luciano Caveri

Ogni spunto di attualità può essere un'occasione per una qualche riflessione più ampia. Così è per quella che si configura ormai come la manifestazione valdostana più grande - affetta in verità ormai da un certo gigantismo - che segna, pensando al periodo dell'anno, la lenta ripartenza della Natura anche in Valle d'Aosta, pur nel cuore dell'inverno. Non so con precisione da quanti anni mi capita di parlare e di scrivere della "Fiera di Sant'Orso": a naso direi poco meno di una quarantina d'anni. Di conseguenza ci vorrebbe una fantasia disneyana per trovare spunti originali in occasione dell'inizio ufficiale, previsto per oggi, di questa tradizionale "Foire", che essendo in questa edizione in settimana - il 30 ed il 31 gennaio sono inamovibili - dovrebbe essere meno caotica. Per altro è la prima volta che ci si confronta con le norme più restrittive dovute ai rischi terroristici e non avendo seguito la questione sono curioso di vederne le ricadute.

Segnalo incidentalmente - ma vale solo per il territorio valdostano in assenza di podcast e streaming per "Rai Vd'A" - che oggi sarò in radio alle 12.30 e in televisione attorno alle 20. Ma qui - che meraviglia andare apparentemente fuori tema - vorrei sorvolare su tutto quanto già detto mille volte per concentrarmi sugli aspetti più umani di questa gigantesca kermesse e per riflettere su che cosa questa manifestazione rappresentanti per i valdostani. So che ci sono quelli che ritengono che l'identità valdostana sia una sorta di panzana a difesa non si saprebbe poi bene di che cosa, se non vagamente di uno status quo politico che a me appare sempre più liquido, se non in via di evaporazione per attitudini autolesioniste. Mentre l'identità esiste ed è fatta - con una meravigliosa capacità di dinamico adattamento e di continua trasformazione - di valori da mettere in comune in cui una maggioranza si riconosce. Poi liberissimi coloro che non lo fanno di eccepire, facendo la loro vita, sentendosi estranei all'idem sentire, avendo una propria identità personale e riconoscendosi in altre identità collettive. Sono un libertario e non obbligo nessuno a fare nulla: per altro, almeno nella conduzione della cosa pubblica, ci sono meccanismi elettivi di relativa garanzia di maggioranze e minoranze, anche se ormai per destreggiarsi nel dedalo delle alleanze ci vorrebbe in Valle un filo d'Arianna. Poi uno può essere atarassico o - dall'altra parte della scala - ipercritico con una serie di variazioni intermedie. Cosa c'entra la "Fiera"? La "Fiera", millenaria ma sempre contemporanea perché ogni edizione toglie e aggiunge qualcosa, esprime un'identità fatta di storia, memoria, lingue, architettura, paesaggio, musica, cucina e tutto ciò che si può mettere in conto, compreso il caposaldo così vario dell'artigianato tradizionale o no. Quel che trovo interessante, sapendo che l'identità è un prodotto culturale e come tale fatto di idee, miti, invenzioni, usi e costumi, abitudini e molto altro, è che - banchetto dopo banchetto, stand dopo stand, cantina dopo cantina - "Sant'Orso" è il segno dell'integrazione fra valdostani d'origine e d'adozione. La valdostanità - lo ripeto a sfinimento convinto della logica mai statica - cambia, si evolve, muta, si trasforma. Ma si trova, non certo per chissà quale imposizione ideologica, a coltivare passioni comuni e modi di essere collettivi. La "Foire", senza trucchi e senza inganni, è un grande specchio in cui i valdostani già diversi secondo le generazioni di appartenenza si specchiano con i propri vizi, le proprie virtù e le proprie differenze d'origine che si impastano tra tradizione e elementi nuovi. Così ci incontriamo, ci salutiamo, scherziamo e accumuliamo ricordi. Un popolo, insomma, che trova in questi due giorni - vetrina per un mare di turisti - occasioni per stare insieme gioiosamente e di questi tempi così grami, con divisioni così acute, c'è un seme di speranza da far fruttare.