Non mi stupisco più di tanto che la Spagna, con un embrassons-nous fra popolari e socialisti, abbia "commissariato" la Catalogna, come epilogo di una vicenda che affonda le sue radici nella Storia e anche nella cronaca degli ultimi mesi. Io sono solidale e vicino ai Catalani: lo dico, lo ridico e lo sottoscrivo, segnalando la delusione profonda, ma non lo stupore, per le dichiarazioni "pro Madrid" dei Governi europei (Italia compresa) e delle Istituzioni comunitarie, che si sono limitate - dopo che la frittata era già stata fatta - a dire che sarebbe bene evitare violenze da parte spagnola. Si può discettare a lungo sulle questioni giuridiche o meglio costituzionali che conosco bene, essendo materie che ho sempre praticato, e non accetto lezioni, ma la realtà è molto più semplice: i catalani chiedevano, nel rispetto di elementari regole democratiche, sancite dal diritto internazionale, di godere all'autodeterminazione dei popoli. E mi si dica - chi ha il coraggio di farlo - che i catalani non sono un popolo e che quel che vale nel resto del mondo non dovrebbe valere per l'Europa.
Pensando - solo per fare due casi sul Vecchio Continente - alla divisione avvenuta in modo pacifico fra Cechia e Slovacchia nel 1992 dopo una convivenza nata sotto lo stesso Paese nel 1918 o alla nascita dal 2003 in poi, anche con le vicende drammatiche della guerra dei Balcani, di tutti gli Stati che dal 1929 componevano la Jugoslavia. Per non dire - se vogliamo usare il perimetro del "Consiglio d'Europa" e non quello del Parlamento europeo - di che cosa sia stato lo sgretolamento con gemmazione di nuovi Stati della vecchia Unione Sovietica. Ma la verità è che gli Stati vogliono restare attaccati alle loro frontiere, tracciate come se fossero eterne ed intoccabili e la dimensione comunitaria rischia di essere solo una sommatoria. Quando le vicende storiche dimostrano come non possa essere affatto così e non lo sarà neppure in futuro. Come tutte le costruzioni umane anche lo Stato Nazionale morirà e si vedono già i segni di questa crisi proprio nel duplice fenomeno di spinte separatiste che domandano democrazie più piccole e più vicine ai cittadini e, per contro, i fenomeni di globalizzazione che danno vita a fenomeni nuovi, come grandi gruppi economici di fatto apolidi e che sfuggono a regole statuali. Ma questo fenomeno a tenaglia stritola gli Stati e chi è federalista assiste con interesse a questi avvenimenti, forte della sua sussidiarietà e cioè del principio che prevede come gli organismi superiori intervengano solo se l'esercizio delle funzioni da parte dell'organismo inferiore sia inadeguato per il raggiungimento degli obiettivi. Ma, visto che nel frattempo tutti hanno qualche fenomeno interno di richieste centrifughe, gli Stati fanno comunella con la Spagna nel difendere lo status quo nel nome della sovranità come mito intangibile. Malgrado sia ormai un'arma spuntata, come mostra bene quell'insieme di reazioni scomposte - intrise di populismo, demagogia e qualche tentazione autoritaria - che emergono dalla crisi della democrazia rappresentativa quando espressione del centralismo statale Il "no" degli Stati alla Catalogna ci fa andare indietro di oltre settant'anni. Era il 18 maggio del 1945 occasione del primo anniversario della morte di Émile Chanoux, quando ebbe luogo ad Aosta una manifestazione popolare a favore del plebiscito in favore del quale formarono sedicimila valdostani. La richiesta fu quella d'indire un referendum popolare attraverso il quale i Valdostani avrebbero potuto pronunciarsi a favore dell'annessione alla Francia o del permanere della Valle d'Aosta all'interno dello Stato italiano, scegliendo tra due opzioni così formulate: "Voulez-vous rester italien? Voulez-vous le rattachement à la France?". Alessandro Passerin d'Entrèves, Prefetto in carica, rifiutò per motivi giuridici e politici di dar corso al referendum e si dimise. Il 24 giugno del 1945 la truppe francesi, che avevano occupato parte del territorio valdostano, si ritirarono in seguito alle pressioni degli angloamericani che erano a loro volta oggetto di pressione, fra gli altri, degli industriali piemontesi che contavano sull'idroelettrico valdostano. Per la Valle d'Aosta di fatto si aprì semmai il discorso di una garanzia internazionale come elemento di tutela futuro per rendere solido più rassicurante il rapporto futuro con lo Stato italiano nel quadro di una vasta autonomia politica, così come era stata promessa nel corso della lotta di Liberazione. Gli esiti insoddisfacenti sono ben noti ed oggi è evidente la fragilità della nostra Autonomia con la vulgata in corso di un ordinamento ormai anacronistico perché non siamo più nel dopoguerra! Come se l'Autonomia non avesse radici e ragioni che prescindono dagli strascichi degli eventi bellici. Tornando al punto, non ho naturalmente rimpianti filofrancesi, perché all'epoca al bivio gli eventi presero una strada diversa dall'annessionismo e sarebbe ozioso creare scenari con i "se" e con i "ma". Quel che resta è che quei fatti ci insegnano come le volontà popolari cedevano allora come oggi alle ragion di Stato e la logica è l'imposizione delle decisioni da parte del più forte. Viene in mente così il clamoroso commissariamento della Regione Valle d'Aosta nel 1966 per la "crisi del fil di ferro" ad opera dell'allora Governo Moro e pure il relatore dello Statuto Speciale alla Costituente, Emilio Lussu, denunciò la scelta dello Stato contro l'Autonomia valdostana. Ora, tornando alle vicende catalane, si vedranno gli eventi futuri: tutto comunque si sarebbe evitato consentendo un referendum. Difficile?