La montagna uccide? Ogni tanto capita di pensarci, di fronte all'ennesima tragedia, con la scomparsa di un amico. Stai lì a ragionare e a discutere con altri su quale siano stati gli avvenimenti esatti, come se una ricostruzione fosse davvero un elemento vagamente consolatorio, quando purtroppo non lo è affatto. Perché quel che conta è una dolorosa morte, punto e basta, che genera disperazione, specie in una famiglia che lo ha perso e in tutti quelli che gli hanno voluto bene. E questa triste vicenda avviene dopo settimane in cui, scorrendo i giornali di diverse località alpine, molti incidenti in montagna si sommano uno dietro l'altro in una catena luttuosa. Le cronache purtroppo sono quelle già note, ripetitive nella dinamica della casistica degli incidenti fra imponderabile e errori e anche questo in fondo serve ad allungare gli articoli, ma la sostanza è altra, purtroppo.
Ma la risposta è sempre la stessa rispetto alla pericolosità della montagna, come se fosse un "Moloch" assassino: la montagna è un rilievo della superficie terrestre e non uccide. Anche se resta - sempre e comunque - un ambiente che comporta dei rischi e non è un caso che, nella formazione ricevuta e data anche per una semplice passeggiata, non mi hanno mai lesinato consigli ed ammonimenti ed io faccio lo stesso. Poi si potrà dire, per carità, che ormai sono rari i posti che non comportano rischi, visto che puoi finire ammazzato camminando in una rambla per un furgone assassino, cessare la tua vita travolto da uno tsunami su di una spiaggia tropicale, morire in un letto per un cancro che ti aggredisce d'improvviso e ti liquida in fretta. «C'est la vie», verrebbe voglia di banalizzare. Allora vale anzitutto la pena di dire perché si va in montagna, ciascuno con il proprio livello e anche con la propria motivazione. Un grande alpinista, Giusto Gervasutti, dell'epoca ancora pionieristica diceva così con la retorica di quei tempi: «Nelle vibranti e libere corse sulle rocce tormentate, nei lunghi e muti colloqui con il sole e con il vento, con l’azzurro, nella dolcezza un po' stanca dei delicati tramonti, ritrovavo la serenità e la tranquillità. E l'ebbrezza di quell'ora passata lassù isolato dal mondo, nella gloria delle altezze, potrebbe essere sufficiente a giustificare qualunque follia». Si vede qui la logica dell'arditezza, del rischio, dell'adrenalina. Ma più serenamente mi riconosco in una certa visione mistica, che poi per una sua versione laica vuol poter dire stare con sé stessi e riflettere sulla bellezza della montagna e sulla nostra dimensione umana, come descritta da Paulo Coelho: «Il Signore soleva ordinare ai suoi profeti di salire sulle montagne, per parlare con Lui. Io mi sono sempre domandato perché lo facesse, e adesso comprendo la risposta: quando siamo in alto, possiamo vedere tutto piccolo. Le nostre glorie e le nostre tristezze cessano di essere importanti. Quello che conquistiamo o che perdiamo rimane laggiù. Dall'alto della montagna, tu puoi vedere come sia grande il mondo, e come siano ampi gli orizzonti». Non è in effetti un caso che per le tutte le religioni la montagna assume un significato profondo e anche a me comunica un senso profondo di pace e penso che non sia poca cosa. Per cui forse nella morte in montagna esiste, nel gonfiarsi delle cronache, una duplicità di elementi. La prima - banalissima - è che la cronaca nera tende alla spettacolarizzazione, con l'effetto «mors tua, vita mea», che spinge ad enfatizzare gli avvenimenti nella loro spettacolarità "ambientale". La seconda è che esiste ormai un problema con la Morte e il suo spettro e, parlandone attraverso eventi particolari sino alla minuzia del particolare, diventa una specie di rozzo esorcismo. Tiziano Terzani che, specie nella lunga malattia approfondì il tema, osservò quanto dovrebbe essere riflessione comune: «Una volta accettata l’idea che la morte è parte della nostra vita, ci si sente più forti, si ha l'impressione che nessuno possa più avere potere su di noi. Vincere la paura della morte è un grande passo di libertà per l’uomo, che aiuta a vivere meglio. L'uomo moderno studia, impara, si impratichisce con migliaia di cose, ma non impara niente sul morire. Anzi, evita in tutti i modi di parlarne (farlo è considerato scorretto come un tempo era parlare di sesso); evita di pensarci e quando quel prevedibile, naturalissimo momento arriva, è impreparato, soffre terribilmente, si aggrappa alla vita, e così facendo soffre ancora di più».