Il tema è delicatissimo, ma assolutamente bruciante e credo ci interessi tutti. In questa nostra società multietnica, che ha sempre più difficoltà a porre con correttezza i paletti fra la cultura di provenienza e quella ospitante, lo scopo credo che stia nella ricerca del giusto equilibrio che porti ad un'integrazione che sia arricchente per gli uni e per gli altri. Chi ha studiato le vicende delle minoranze linguistiche e nazionali sa quanto sia importante che si definiscano regole giuridiche che "proteggano" certe identità particolari, ma questa sensibilità - fatta alla fine di diritti e di doveri - diventa più difficile a fronte di usi, costumi e credenze di culture molto distanti. Soprattutto nei casi in cui facciamo scintille con le basi del nostro Diritto. Penso alla condizione femminile stridente, ai matrimoni combinati con giovanissime, al rapporto educativo con i figli, all'integralismo religioso che preoccupa, a pratiche tradizionali come l'infibulazione e potrei continuare l'elenco.
Dice l'Ansa, riferendosi ad una sentenza di Cassazione, che ora darà la linea alla giurisprudenza: "Gli immigrati che hanno scelto di vivere nel mondo occidentale hanno "l'obbligo" di conformarsi ai valori della società nella quale hanno deciso "di stabilirsi" ben sapendo che "sono diversi" dai loro e "non è tollerabile che l'attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante". Lo sostiene appunto la Suprema Corte di fronte ad un tema già noto. Si tratta del fatto che i fedeli della religione "sikh", una variante dell'induismo, sono tenuti a portare sempre alla cintola il pugnale (il "kirpan") come precetto religioso. Così come hanno un analogo obbligo di non tagliare i capelli, raccogliendoli in un vistoso turbante. La regola religiosa del coltello, però, si scontra con la legge italiana che vieta di girare con addosso armi da taglio così lunghe e, dopo sentenze varie, ora vi è una decisione chiarificatrice. Ma la sentenza incide più in profondità. Prosegue, infatti, la Cassazione: "In una società multietnica, la convivenza tra soggetti di etnia diversa richiede necessariamente l'identificazione di un nucleo comune in cui immigrati e società di accoglienza si debbono riconoscere. Se l'integrazione non impone l'abbandono della cultura di origine, in consonanza con la previsione dell'articolo 2 della Costituzione che valorizza il pluralismo sociale, il limite invalicabile è costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante". E ancora: "E' essenziale l'obbligo per l'immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale, in cui ha liberamente scelto di inserirsi, e di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina". Il verdetto aggiunge che "la decisione di stabilirsi in una società in cui è noto, e si ha la consapevolezza, che i valori di riferimento sono diversi da quella di provenienza, ne impone il rispetto e non è tollerabile che l'attaccamento ai propri valori, seppure leciti secondo le leggi vigenti nel Paese di provenienza, porti alla violazione cosciente di quelli della società ospitante". Se uno segue le sentenze della Corte di Giustizia europea si accorgerà che ci sono questioni ancora più forti, come la validità di vietare il velo islamico indossato, in certe circostanze, nei luoghi di lavoro senza violare il diritto alla libertà religiosa, cui ha fatto da contraltare - nella logica della simbolistica religiosa - l'uso della catenina con la croce (consentita ad un hostess, ma non ad un'infermiera). Ma c'è anche il caso dell'impiegata cristiano-ortodossa, cui è stato confermato il licenziamento, per non aver accettato di trattare casi di coppie gay nel suo ufficio del "Registro delle Unioni Civili". E' un terreno assai mobile, che obbliga alla convivenza civile e alla ricerca - non facile - dei famosi valori fondanti, che devono essere chiari e definiti, avendo anche il coraggio di legiferare con nettezza, senza dover obbligatoriamente passare certe patate bollenti alla sola interpretazione dei giudici. Se dovessi esprimere un mio pensiero suppletivo: sarebbe bene chiarire ai nuovi venuti quei valori - che poi sono nel Diritto ma anche nell'Etica - non derogabili, facendo in modo che questo sia un presupposto per un'accoglienza seria e non fatta a spizzichi e bocconi con ambiguità che rendano disastroso il dialogo, invece necessario.