Il modo di dire è ben conosciuto: «non fare la Cassandra!». Si intende, da vocabolario: "Persona che predice sventure, a cui non viene dato credito". Ci si riferisce a Cassandra, mitica profetessa, figlia del re Priamo, che predisse la distruzione di Troia senza essere mai creduta, specie quando ammonì i troiani a non trascinare dentro le mura di Troia il cavallo di legno abbandonato dai Greci sulla spiaggia. Come finì, poi si sa bene ed è proverbiale, visto che il cavallo in legno venne portato dentro le mura e, durante la notte, i guerrieri nascosti nel cavallo aprirono ai loro compagni le porte della città, che fu così distrutta e incendiata. Tempo fa, lo dico come digressione, si è supposto che la traduzione da Omero fosse sbagliata e che non si trattasse di un cavallo, ma di una nave di tipo fenicio con la polena a testa di cavallo. Ma ciò non cambia la sostanza dei fatti susseguenti.
Resta la circostanza che bisogna fare attenzione a dimostrarsi "profeti di sventura" e soprattutto bisogna evitare di farlo con improbabili profezie, ma semmai seguendo il metodo scientifico, che poi - scava scava - resta grossomodo quello teorizzato da Galileo Galilei, che non a caso in una logica oscurantista fu processato e condannato dal Sant'Uffizio, e costretto, il 22 giugno 1633, all'abiura delle sue concezioni astronomiche e finì al confino nella propria villa di Arcetri. C’è una frase da tenere a mente del fisico Richard Feynman: «scienza è credere nell'ignoranza degli esperti». Figurarsi in politica, dove tutto è più flou e certi confini che paiono determinati e fissi si spostano con una certa facilità e restare sui propri passi, seguendo le proprie idee e convinzioni, viene talvolta visto come un elemento di incredibile coerenza, quando dovrebbe essere invece la normalità. Coerenza, beninteso, che non vuol dire girare con il paraocchi o non tornare, quando necessario, sui propri passi, perché le situazioni mutano e con esse la necessaria visione delle cose. Ma una direzione, una dirittura personale e morale, deve restare, altrimenti si rischia di essere pronti a tutto e soprattutto a deformare il proprio modo di pensare per uniformarsi o per convenienza. Facile a dirsi, difficile a farsi. Ma torniamo a Cassandra. Mi è capitato in questi anni - e lo scrivere aiuta a conservare la memoria - di segnalare problemi che prima o poi sarebbe esplosi e di averlo fatto anche con toni seriamente preoccupati. E di sentirmi dire che la mia era una drammatizzazione strumentale, perseguita per miei disegni personali. Il caso più eclatante - che ha poi una serie di sottoinsiemi che potrei declinare in un vasto disegno - è il lento degradarsi dell'Autonomia valdostana, della sua percezione esterna ed anche del sostegno popolare alla sua esistenza stessa. Non lo dico in termini ideologici, perché l'Autonomia non è un idolo, cioè un oggetto da adorare o venerare in quanto divinità o simbolo di una divinità. Si tratta, invece, di una costruzione umanissima e come tale sempre perfettibile, piena di aspetti positivi, ma anche di situazioni negative e bisogna con equilibrio prendere atto di quanto c'è veramente. Da questo punto di vista, il rischio è quello di trovarsi sempre nel flusso delle vicende contingenti, come su di un gommone in una discesa di rafting, concentrati sul percorso, senza più avere la possibilità di guardarsi attorno e vedere come si situi un certo momento in un disegno necessariamente più vasto. Questo fermarsi a pensare, applicando un metodo scientifico che va usato con beneficio d'inventario perché talvolta in politica e in amministrazione le variabili che incidono cambiano in fretta il quadro in cui si deve agire, è comunque un presupposto indispensabile. Mi piacerebbe davvero che, Cassandra o meno, certe urgenze e certi pericoli non venissero sottostimati, perché non si tratta di essere visto come menagrami sull'uscio o considerati tarli che mangiano la casa in legno dell'Autonomia, ma di porsi di fronte con crudo realismo ad un mondo che cambia e l'orologio gira inesorabile. E suona come un agro ammonimento quel che diceva Hermann Hesse e vale per le distorsioni che possono avvenire nell'attesa passiva e inerte: «Anche un orologio fermo segna l'ora giusta due volte al giorno».