Non cadrò mai nel solito giochino riguardante il francese, che spesso si sente sull'argomento. Quando talvolta in Valle d’Aosta si dice «Francese!», qualcuno obietta in automatico benaltrismo «Meglio l’inglese!». Oppure, altro scenario, «Ma non lo parla più nessuno» e dunque si segnala in sostanza - come se fosse fruttuosa - una visione dell'evoluzione storica in Valle d'Aosta che ha avuto una ricaduta linguistica. Di recente ho ritrovato due manifesti, ovviamente in lingua francese, firmati - siamo poco dopo l'Unità d'Italia - dal mio bisnonno Paolo "Paul" Caveri, allora Sous-Préfet di Aosta. Ancora in quell'epoca il bilinguismo valdostano ruotava attorno al francoprovenzale, con i suoi diversi patois rimasti tali in assenza di un progetto di normalizzazione linguistica, cioè un accordo su di una lingua standard e naturalmente c'era il francese come lingua solidamente instaurata nei rapporti ufficiali di livello istituzionale ed anche nella Chiesa locale.
Al di là del vantaggio che derivava per i rapporti di prossimità e per chi emigrasse, che andasse a fare lo spazzacamino a Lione o si trovasse a fare un lavoro intellettuale a Parigi, questo nostro francese era una creatura locale con sue varianti proprie, derivate dalla nascita e dallo sviluppo autoctono di questo idioma. Ricordo come il francese divenne lingua ufficiale della Valle d'Aosta nel 1561 con l'"Editto di Rivoli". Ne scrivo di questo benedetto francese perché oggi inizia ufficialmente la "Semaine de la langue française et de la Francophonie", definita nei documenti ufficiali come il "rendez-vous régulier des amoureux des mots en France comme à l'étranger", per poi aggiungere "elle offre au grand public l'occasion de fêter la langue française en lui manifestant son attachement et en célébrant sa richesse et sa diversité". Anche in Valle d'Aosta - che pure mi pare aver tirato, come Regione autonoma, i remi in barca rispetto alla presenza politica, disertando i pur utili "Sommet de la Francophonie" nelle ultime due edizioni - c'è un calendario di incontri interessanti e ricco di spunti, che dimostrano come la francofonia resti un mondo stimolante di presenze e farne parte resta interessante, al di là di qualunque considerazione più propriamente politica e costituzionale. Per altro l'inserimento di altre lingue, come appunto l'inglese, sta progressivamente avvenendo, così come - lo dico da genitore - mi pare che sul francese si siano fatti, con i più piccoli, passi in avanti per evitare che in troppi - come mi ricordo di avere letto da ragazzo in un articolo su "La Stampa" di Alessandro "Alexandre" Passerin d'Entrèves, intellettuale che difendeva a spada tratta la francofonia - parlino francese come dei portieri d'albergo. Abbandonare la partita del francese significherebbe in sostanza rinnegare la storia del passato e non lo dico con una logica nostalgica - perché i tempi cambiano e dall'inizio del popolamento della Valle tante lingue sono state parlate su questo medesimo territorio alpino - ma perché si tratta di un aggancio necessario per la propria identità. Scriveva Sant’Agostino: «Eppure gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi». Questo per dire, con le parole senza tempo di un padre della Chiesa del primo millennio, che esiste una dimensione globale che oggi, a maggior ragione ci coinvolge, ma appunto per evitare di essere più apolidi che cittadini del mondo bisognerà pur sempre avere - per chi lo voglia - una base di partenza e di ritorno in cui ritrovare, anche nella sfera più personale, la propria dimensione affettiva e culturale. Io mi riconosco nell'amore per la lingua francese, nel solco di una tradizione di una famiglia che - pur imparentata con famiglie locali attraverso i matrimoni - ha scelto, provenendo dalla vicina Liguria, di "diventare" valdostana da metà Ottocento e nella mia famiglia l'uso del francese caratterizzava tutti gli incontri di mio papà con i suoi fratelli e sorelle, come dimostrano anche molte lettere che ci si scambiavano quando erano distanti. Buttare tutto nel cassetto dei ricordi nel nome del flusso della modernità sarebbe assurdo, anche se poi ognuno è libero di pensarla come vuole. Io concordo con il cantante-poeta del Québec Gilles Vigneault, che ha scritto rivolgendosi alla sua gente: «La francophonie, c'est un vaste pays, sans frontières. C'est celui de la langue française. C'est le pays de l'intérieur. C'est le pays invisible, spirituel, mental, moral qui est en chacun de vous». Aggiungendo, in un'altra canzone, sulle radici: «L'arbre, on ne pense pas assez à ses feuilles. Si on y pensait, on prendrait plus soin de ses racines».