Ci sono cose che si incrociano. Talvolta sono divertenti, talvolta sono tristi. Divertente è il refuso dell'ultimo Consiglio dei Ministri nei suoi atti registrati nel comunicato ufficiale, laddove si elencano le leggi regionali. In passato si citavano solo quelle per cui era stato deciso il rinvio alla Corte Costituzionale per supposte ragioni di incostituzionalità, mentre da qualche tempo - chissà poi perché - il Governo ha deciso di citare anche quelle leggi che invece non sono state inviate alla Consulta. Un contenuto inspiegabile perché non può trattarsi in alcun modo di una forma di "approvazione" del Governo, essendo non previsto nessun controllo del genere - se non appunto di costituzionalità - sulla legislazione regionale ad ordinamento vigente.
Per cui è, semmai, una specie di ingenua dimostrazione di forza e di superiorità gerarchica, che non fanno ben sperare per quella che dovrebbe essere una Repubblica delle autonomie, come per altro ben esplicitato nella Costituzione attuale, di cui Matteo Renzi voleva - con la sua controriforma in salsa centralista - fare "carne di porco" con un regionalismo che sarebbe stato di fatto asfaltato e la stessa fine l'avrebbero fatta in futuro Autonomie speciali come quella valdostana. Il refuso nel comunicato finale della riunione governativa a Palazzo Chigi, nel dire di un improprio placet ad una legge valdostana, riguarda una fantomatica "Provincia Valle d'Aosta". Errore tempestivamente segnalato da quel cacciatore di dizioni errate, ancora troppe numerose, di "Provincia di Aosta", che è Mauro Caniggia Nicolotti, sempre a ricordare come la Provincia sia stata soppressa nel 1945 con la nascita, prima di avere una Regione autonoma, con una "circoscrizione autonoma". Quella abolizione aveva un profondo significato autonomistico, perché la Provincia di Aosta voluta da Benito Mussolini, nata nel 1927 sulle ceneri di precedenti ripartizioni amministrative, era stata allargata volutamente al Canavese e questo non piaceva né ai valdostani né ai canavesani (essendo il Capoluogo Aosta). So bene che altrove, come a Bolzano e a Trento, contro l'artificiosità della Regione, la Provincia, ma autonoma, assume invece una valenza autonomista, all'esatto contrario della Provincia nella memoria valdostana. Ma si sa come lo stesso termine possa mutare valore a seconda delle circostanze. Per quel che mi riguarda - nel solco di Luigi Einaudi - resto convinto che la Provincia vada abolita, a maggior ragione oggi che è diventata un'entità senza base democratica, non essendo più i Consigli provinciali votati dai cittadini. Ma dicevo all'inizio di come, accanto a storie divertenti, ce ne siano di tristi. In Valle d'Aosta c'è chi, da posizioni assai differenti, propone di tornare ad avere un Prefetto in Valle d'Aosta, essendo dal 1945 - nel medesimo decreto luogotenenziale - stato previsto che le funzioni prefettizie siano in capo al presidente della Regione, come confermato da diverse norme di attuazione dello Statuto e dalla giurisprudenza costituzionale. Va detto, invece, che sempre seguendo il pensiero di Luigi Einaudi, quell'unicum ancora esistente in Valle d'Aosta faceva parte, nel periodo post fascista, di un ragionamento politico e giuridico preciso. E se questa sovrapposizione presidente-funzioni prefettizie (no presidente-prefetto!) si ritiene non abbia funzionato a pieno si ragioni su misure adatte, ma senza tornare indietro. Vale quel che scriveva proprio Einaudi nel 1944 dal suo esilio svizzero: «Proporre, in Italia ed in qualche altro Paese di Europa, di abolire il "prefetto" sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di Governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale? Come opera l'amministrazione pubblica? In verità, il prefetto è una luce che fu inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone. Gli antichi Governi erano, prima della rivoluzione francese, assoluti solo di nome, e di fatto vincolati d'ogni parte, dai senati e dalle camere dei conti o magistrati camerali, gelosissimi del loro potere di rifiutare la registrazione degli editti che, se non registrati, non contavano nulla, dai corpi locali privilegiati, auto-eletti per cooptazione dei membri in carica, dai patti antichi di infeudazione, di dedizione e di annessione, dalle consuetudini immemorabili. Gli Stati italiani governavano entro i limiti posti dalle "libertà" locali, territoriali e professionali. Spesso "le libertà" municipali e regionali erano "privilegi" di ceti, di nobili, di corporazioni artigiane ed erano dannose all'universale. Nella furia di strappare i privilegi, la rivoluzione francese distrusse, continuando l'opera iniziata dai Borboni, le libertà locali; e Napoleone, dittatore all'interno, amante dell'ordine, sospettoso, come tutti i tiranni, di ogni forza indipendente, spirituale o temporale, perfezionò l'opera. I Governi restaurati trovarono comodo di non restaurare, se non di nome, gli antichi corpi limitatori e conservarono il prefetto napoleonico. L'Italia nuova, preoccupata di rinsaldare le membra disiecta degli antichi ex-Stati in un corpo unico, immaginò che il federalismo fosse il nemico ed estese il sistema prefettizio anche a quelle parti d'ltalia, come le province ex-austriache, nelle quali la luce si era infiltrata con manifestazioni attenuate. Si credette di instaurare libertà e democrazia e si foggiò lo strumento della dittatura». Niente male questa lunga spiegazione storica e poi Einaudi rincara la dose: «Democrazia e prefetto repugnano profondamente l'una all'altro. Né in ltalia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussia si ebbe mai e non si avrà mai democrazia, finché esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto. Coloro i quali parlano di democrazia e di costituente e di volontà popolare e di autodecisione e non si accorgono del prefetto, non sanno quel che si dicono. Elezioni, libertà di scelta dei rappresentanti, camere, parlamenti, costituenti, ministri responsabili sono una lugubre farsa nei Paesi a Governo accentrato del tipo napoleonico». Eccoci poi al cuore del problema, sempre nell'articolo di Einaudi: «La classe politica non si forma tuttavia se l'eletto ad amministrare le cose municipali o provinciali o regionali non è pienamente responsabile per l'opera propria. Se qualcuno ha il potere di dare a lui ordini o di annullare il suo operato, l'eletto non è responsabile e non impara ad amministrare. Impara ad ubbidire, intrigare, a raccomandare, a cercare appoggi. Dove non esiste il Governo di se stessi e delle cose proprie, in che consiste la democrazia? Finché esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l'attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al Consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al Governo centrale, a Roma; o, per parlar più concretamente, al Ministro dell'interno». Naturalmente l'evoluzione nel successivo periodo repubblicano ha in parte attenuato la logica del Prefetto, ma non così in profondità rispetto anche al j'accuse finale di Einaudi: «Perciò il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto! Via con tutti i suoi uffici e le sue dipendenze e le sue ramificazioni! Nulla deve più essere lasciato in piedi di questa macchina centralizzata; nemmeno lo stambugio del portiere. Se lasciamo sopravvivere il portiere, presto accanto a lui sorgerà una fungaia di baracche e di capanne che si trasformeranno nel vecchio aduggiante palazzo del governo. Il prefetto napoleonico se ne deve andare, con le radici, il tronco, i rami e le fronde». Chi ripiantare questa pianta "statale" in Valle d'Aosta - e lo scrive chi ha avuto avi che hanno fatto carriere prefettizie! - deve pensarci bene.