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08 mar 2017

Valanghe: e non si dica che non si sa!

di Luciano Caveri

Confesso le mie colpe: da ragazzino, con gli sci normali di una volta, senza casco e con attrezzature per nulla tecniche capitava di andare a finire - magari con qualche amico più in gamba - in neve fresca. Non avevamo nessuna particolare competenza in merito e all'epoca non c'erano "bollettini valanghe" ed informazioni meteo precise e neppure attrezzature come l'"Arva" per darsi qualche sicurezza in più. Il pericolo di valanghe esisteva, ma avevamo molte ragioni per non prenderlo del tutto sul serio per semplici ragione: autoctoni e villeggianti - uniti dal destino di sciare in compagnia, che è una cosa bellissima - eravamo fondamentalmente degli ignoranti. Non che fossimo totalmente digiuni: il fuoripista vero e proprio, quello spaziando dappertutto, lo facevamo su neve trasformata, cioè dura, in periodo primaverile. Sapevamo - come regola ferrea - che appena faceva troppo caldo si smetteva di andare in certe zone.

Va aggiunto che, con certe scene viste da cronista e poi per mia informazione con esperti del settore, fattisi anche loro sempre più competenti perché sono stati fatti negli studi sulle valanghe passi da gigante, mi sono nel tempo reso conto di quanto possa essere facile, persino banale, morire sotto la neve.
Ho assistito a scene strazianti, in cui alla fine a colpirti non era solo la morte - che è sempre una brutta cosa - quanto la stupidità dell'evento, perché anche la morte può essere banale e non esiste nessuna "bella morte" sotto il manto nevoso. Specie se non si muore solo per propria responsabilità di essere nel posto giusto nel momento sbagliato, ma esiste - come dimostra ormai ampia giurisprudenza - una responsabilità di chi a monte ha staccato la massa nevosa o, peggio ancora, imperizia da parte del professionista della montagna che ti ha portato dove il grado di rischio risultava eccessivo. Oggi la vasta consapevolezza della pericolosità e le notevoli informazioni dettagliate sullo stato della neve fanno sì che non esista più alcun alibi. Chi muore sotto la neve lo fa compiendo, tranne rarissimi casi, un errore di valutazione ed il paradosso è che esista ancora una specie di sicumera, che spinge qualcuno a sottovalutare l’intrinseco grado di rischio. Come se ci si affidasse più al proprio istinto («a me non potrà mai capitare»), che ad una ragionevolezza di approccio. La storia dell'alpinismo, fratello maggiore degli sport della neve, è piena di storie analoghe e lì l'aspetto eroico, quasi epico, della competente del rischio come elemento di nobiltà di uno sport estremo aveva un suo aspetto teorizzato e quasi mistico. Troppi morti lo hanno testimoniato anche in Valle d’Aosta. Per fortuna oggi non si ragiona più così ed a maggior ragione, per la sua diffusione, dovrebbe valere per lo sci fuoripista, che non ha nulla a che fare con quello sci estremo, oggi in parte interpretato da coloro che praticano il "freeride", di cui si trovano filmati adrenalinici su "YouTube", che rendono ridicole le nostre sciatine fuoripista. Ma il divertimento anche con elevata componente di rischio non può essere mai mischiato con l’eccesso di confidenza e persino l'atteggiamento da spacconi di chi pensa appunto che superare i limiti - magari con una bella ripresa con la "GoPro" - sia un valore. Non lo è mai, specie quando rischi di finire in una bara, mettendo a rischio la vita di altri, come può avvenire per una valanga che si stacca o per un soccorritore che rischia di morire per salvare la tua ghirba o per recuperare il tuo cadavere.