Quando venne assegnato il "Premio Nobel per la Letteratura" a Bob Dylan considerai si trattasse di una sorta di riconoscimento al mondo vastissimo di cantautori-poeti, che hanno saputo raccontare il nostro mondo. Oltretutto la mia generazione è cresciuta "a pane e Dylan" e certe sue canzoni accendono dei flash su qualche ricordo in ombra, legandolo a circostanze che tornano in superficie. Poi, come molti, non ho mai giustificato l'atteggiamento di Dylan, che prima è rimasto silente per lungo tempo dopo la designazione e poi è mancato alla consegna del premio a Stoccolma e che questo appartenga al suo stile scientemente dimesso mi importa poco, perché la maleducazione non è mai giustificabile, essendo deprecabile il ragionamento che ai geni artistici vada tutto giustificato.
Così, per caso, quando ormai consideravo questa storia - su cui qui non ho mai scritto - come morta e sepolta, mi sono ritrovato per caso sott'occhio il discorso (anche Dylan per regola dovrebbe tenerne uno!) pronunciato dal grande poeta Eugenio Montale al momento del ritiro del suo "Nobel" nel 1975. Un intervento lungo e accurato, che mostra anzitutto la giusta considerazione per il premi anche da parte di una personalità a tratti ispida come il poeta genovese, che amo fin da quando son ragazzo per quella sua capacità di rappresentare seccamente la condizione umana con tratti di ironia feroce, come quando disse agli Accademici nel suo discorso: «In ogni modo io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile». Poi scavò ancora di più: «Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi così diversi l'uno dall'altro come Croce, storicista idealista, e Gilson, cattolico, sono d'accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia. Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto ritengo ch'essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (che è la parola) al martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e musica poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la musica si fa sentire. La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche, sorgono i metri, le strofe, le cosiddette forme chiuse. Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della poesia è il suono. Ma non tarderà a sorgere con i poeti provenzali una poesia che si rivolge anche all'occhio. Lentamente la poesia si fa visiva perché dipinge immagini, ma è anche musicale: riunisce due arti in una. Naturalmente gli schemi formali erano larga parte della visibilità poetica. Dopo l'invenzione della stampa la poesia si fa verticale, non riempie del tutto lo spazio bianco, è ricca di "a capo" e di riprese. Anche certi vuoti hanno un valore». Ricordo che Montale studiò musica, senza mai calcare un palcoscenico, e fu critico musicale colto e competente. E sul destino dell'Arte fu a Stoccolma quasi profetico: «Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democraticizzandosi nel senso peggiore della parola. L'arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l'uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L'esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare l'orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l'uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di sé stesso? Ovviamente prevedo le obiezioni. Non bisogna confondere le malattie sociali, che forse sono sempre esistite ma erano poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione non permettevano di conoscere e diagnosticare la malattia. Ma fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell'attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano "datate" e il bisogno che l'artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell'attuale, dell'immediato. Di qui l'arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un'esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex machina di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di coordinare gli allestimenti scenici, ma di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre. C'è una grande sterilità in tutto questo, un'immensa sfiducia nella vita». Poi il suo intervento si dilungò, in modo minuto e circostanziato, sulla Poesia, che - disse Montale - «resterà sempre una delle vette dell'anima umana». Segue il coup de théatre sulla platea: «Vogliamo rileggere insieme un canto di Joachim du Bellay. Questo poeta, nato nel 1522 e morto a soli trentacinque anni, era nipote di un cardinale presso il quale visse a Roma qualche anno riportando profondo disgusto per la corruzione della corte pontificia. Du Bellay ha scritto molto, imitando più o meno felicemente i poeti della tradizione petrarchista. Ma la poesia (forse scritta a Roma), ispirata da versi latini del Navagero, che raccomanda la sua fama, è frutto di una dolorosa nostalgia per le campagne della dolce Loira da lui abbandonate. Da Sainte-Beuve fino a Walter Pater, che dedicò a Joachim un profilo memorabile, la breve Odelette des vanneurs de blé è entrata nel repertorio della poesia mondiale. Proviamo a rileggerla se questo è possibile, perché si tratta di una poesia in cui l'occhio ha la sua parte.
A vous troppe legere, qui d'aele passagere par le monde volez, et d'un sifflant murmure l'ombrageuse verdure doulcement esbranlez,
j'offre ces violettes, ces lis et ces fleurettes, et ces roses icy, ces vermeillettes roses, tout freschement écloses, et ces oeilletz aussi.
De vostre doulce halaine eventez ceste plaine, eventez ce sejour, ce pendant que j'ahanne a mon blé, que je vanne a la chaleur du jour».
Fine della citazione. Poesia, appunto, come una parte delle conclusioni del Poeta, che qui riporto: «Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell'uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l'arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto». Fosse così facile...