Capita di essere sommersi dai problemi quotidiani in un contesto generale che francamente preoccupa. Ho scritto a caldo della vittoria di Donald Trump, che apre prospettive piene di inquietudini sul ruolo che potrà rivestire, anche se ormai tocca giudicarlo sui fatti. Penso, occupandomi sempre di un quadro vasto, a questioni che sono irrisolte, come l'evidente preoccupazione delle migrazioni di massa, cui non sembra esistere soluzione, al di là della giusta ospitalità ai profughi che hanno - loro sì - diritto a protezione. O ancora, sempre a livello globale, al fuoco che si diffonde del terrorismo islamico che uccide. Questo quadro è esacerbato dalla crisi profonda dello Stato democratico (figurarsi quelli che non lo sono) anche nelle sue espressioni più vaste, come può essere a livello continentale l'Unione europea.
Nel caso italiano appare macroscopico il tema della riforma costituzionale, come esempio in fondo di una crisi della democrazia che cerca sbocchi dal potenziale contenuto autoritario e centralistico nel nome - sia chiaro il paradosso - della governabilità e come rimedio all'antipolitica. Pure nella piccola Valle d'Aosta la crisi della politica colpisce con durezza e l'impressione per un cittadino è che ci siano giochi e camarille che fanno perdere di vista le difficoltà in corso e che svuotano quel che resta dell'Autonomia speciale, delle sue risorse finanziarie e dei punti centrali del sistema di autogoverno di certo imperfetto se ha consentito un eccesso di potere in una sola persona. In questo contesto che turba e preoccupa bisogna necessariamente trovare dei punti di riferimento. Penso ad una vecchia massima, che mi capita di adoperare di tanto in tanto. Si tratta di quel «primum vivere, deinde philosophari» (dal latino «prima si pensi a vivere, poi a fare della filosofia»). Frase ripetuta talvolta, anche con significato estensivo, come richiamo a una maggiore concretezza e ad una più forte aderenza agli aspetti pratici della vita. Frase che viene tradizionalmente attribuita al filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679), ma che è probabilmente molto più antica. E' un richiamo a valorizzare valori e affetti che precedono ogni forma politica vera e propria, trattandosi di quella quotidianità che deve fondare quel famoso - nei limiti del possibile - "diritto alla felicità". Mi ricordavo e l’ho ritrovata una "Bustina" dell'"Espresso" di Umberto Eco, piena della sua vena sarcastica e del suo buonsenso, quando diceva: «Talora mi viene il sospetto che molti dei problemi che ci affliggono - dico la crisi dei valori, la resa alle seduzioni pubblicitarie, il bisogno di farsi vedere in televisione, la perdita della memoria storica e individuale, insomma tutte le cose di cui sovente ci si lamenta in rubriche come questa - siano dovuti alla infelice formulazione della Dichiarazione d'indipendenza americana del 4 luglio 1776, in cui, con massonica fiducia nelle magnifiche sorti e progressive, i costituenti avevano stabilito che "a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità". Sovente si è detto che si trattava della prima affermazione, nella storia delle leggi fondatrici di uno Stato, del diritto alla felicità invece che del dovere dell'obbedienza o altre severe imposizioni del genere, e a prima vista si trattava effettivamente di una dichiarazione rivoluzionaria. Ma ha prodotto degli equivoci per ragioni, oserei dire, semiotiche». Aggiungeva argutamente più avanti: «La questione è che la felicità, come pienezza assoluta, vorrei dire ebbrezza, il toccare il cielo con un dito, è situazione molto transitoria, episodica e di breve durata: è la gioia per la nascita di un figlio, per l'amato o l'amata che ci rivela di corrispondere al nostro sentimento, magari l'esaltazione per una vincita al lotto, il raggiungimento di un traguardo (l'Oscar, la coppa, il campionato), persino un momento nel corso di una gita in campagna, ma sono tutti istanti appunto transitori, dopo i quali sopravvengono i momenti di timore e tremore, dolore, angoscia o almeno preoccupazione. Inoltre l'idea di felicità ci fa pensare sempre alla nostra felicità personale, raramente a quella del genere umano, e anzi siamo indotti sovente a preoccuparci pochissimo della felicità degli altri per perseguire la nostra. Persino la felicità amorosa spesso coincide con l'infelicità di un altro respinto, di cui ci preoccupiamo pochissimo, appagandoci della nostra conquista». E poi il ragionamento, che qui sintetizzo, si conclude in realtà con una sola frase: «E' che la dichiarazione d'indipendenza avrebbe dovuto dire che a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto-dovere di ridurre la quota d'infelicità nel mondo, compresa naturalmente la nostra». Questo per dire che in fondo il confine tra il privato e il pubblico non deve mai essere così netto nel "primum vivere", perché - come osserva Eco - la componente più intima e personale di felicità scende e sale naturalmente secondo le circostanza. Ma in fondo il messaggio della vita dovrebbe essere - e qui sta forse il vero scopo della Politica, oggi ridotta per molte ragioni a zerbino su cui pulirsi i piedi - nel fatto che la nostra felicità funziona se serve anche a concorrere al benessere di una comunità e questo cementa il senso di appartenenza senza il quale rischiamo di essere sperduti. Ma capisco che corro il rischio di... "philosophari".