Chiamare l'immigrazione "clandestina" è un esercizio di stile, malgrado il meccanismo degli arrivi, specie quelli usuali coi barconi, siano saldamente nelle mani di organizzazione malavitose di vario genere, che si fanno pagare a peso d'oro per un viaggio che troppo spesso diventa un tomba. Una sorta di tratta degli schiavi gestita ormai in una malcelata collaborazione con le autorità costituite, in un gioco di conseguenza spesso simulato fra guardie e ladri, che finisce con la consegna dei poveracci che avviene in mare e con il loro trasporto sulla terra ferma. Il termine "clandestino" si è svuotato anche perché solo dopo anni ed un cumulo di carte e di burocrazia si può distinguere fra chi ha diritto all'asilo e chi no, ma tanto le espulsioni non si fanno perché di fatto sono impossibili o perché il soggetto da espellere è ormai diventato "uccel di bosco" con identificazioni rese difficili di persone che finiscono per avere decine di "alias", cioè diverse identità.
Il fenomeno epocale della migrazione ha una valenza mondiale e dovrebbe essere materia europea e gli Stati oltretutto rivendicano sulla materia una competenza fortemente centralizzata nel regolare i flussi, ma la realtà anche in questo caso è un'altra: alla fine dei conti tutte le difficoltà si scaricano sulle autorità locali, che si trovano gravate da un problema finale su cui non hanno reali possibilità di incidere. Per non dire del rischio di affarismo, già emerso, nella gestione di quella che si chiama "accoglienza", ma diventa qualcosa di stabile per anni e forse per decenni. Oltretutto a fronte di un fenomeno che si sa bene non accenna affermarsi, anzi gli incrementi previsti sono quelli di un dolente Terzo Mondo che non farà altro che riversarsi verso il miraggio di un Occidente terra del Bengodi. Il famoso «aiutiamoli a casa loro», guardando la verità in faccia, resta un foglia di fico per placare la crescente incomprensione verso un fenomeno che sembra ineluttabile. In Valle d'Aosta, terra di piccoli Comuni dove l'equilibrio sociale è legato spesso a piccoli numeri per ragioni demografiche, non si potrà far finta di niente a lungo e l'impressione, vista dal di fuori, è che si insegua l'emergenza e sia pervicace la scelta negli arrivi di soggetti giovani e maschi difficilmente integrabili, che danno meno grattacapi nell'occuparsene, ma questo pesa su qualunque seria azione che eviti ghetti incendiari. Ribadisco qui che chi pensa di coprire i buchi demografici dei territori montani con iniezioni massicce di immigrati sembra non cogliere la problematica: senza integrazione vera e programmata si va dritti al fallimento ed i numeri contano, perché gli studi decennali sul fenomeno confermano che oltre ad una certa soglia nascono scontro e xenofobia. Specie quando manca quell'apporto essenziale che è la definizione netta dei confini fra diritti e doveri. Un'ultima novità deriverà forse nella piccola Valle da quanto sta avvenendo ai confini con Francia e Svizzera con il ritorno degli spalloni per attraversare le frontiere e non a caso gli elvetici ora controllano pure con i droni militari. Nulla a che fare con chi - nelle vicende drammatiche della Seconda Guerra Mondiale - accompagnava perseguitati politici ed ebrei attraverso i colli alpini. Sinora, infatti, c'è chi ci ha provato, senza riuscirci, attraverso i tunnel stradali, ma in Lombardia ed in Piemonte è ricominciato l'uso di vecchi sentieri con notevoli guadagni per chi accompagna, sfruttando la disperazione dei migranti che non vedono l'ora di andarsene dall'Italia. Credo che su questo si debba essere ragionevolmente vigili (mi dicono, ma non l'ho verificato, di controlli flebili al colle del Piccolo San Bernardo), anche se questa questione confinaria dimostra solo una cosa: il sistema europeo e internazionale sulle migrazioni è saltato e vale la logica del "chacun pour soi", che non porterà molto lontano e - lo ripeto - il grande della questione farà saltare molti meccanismi di fiducia nella democrazia locale. Il che è un evidente paradosso.