Mi è capitato l'altra sera di discutere della viticoltura valdostana e dei suoi destini futuri con un viticoltore, Costantino Charrère, che ha avuto un ruolo di apripista nel settore, cavalcando coraggiosamente un'idea imprenditoriale - fare vini e esportarli - partendo da proprietà familiari e da un "porta a porta" con i propri prodotti nei ristoranti del Nord Italia (ma non in Piemonte, impermeabile ad "invasioni" esterne) a caccia di clienti che alimentassero la sua scelta di diventare viticulteur a tempo pieno. Scopo raggiunto e reso solido nel tempo anche con la scelta delle due figlie, Elena ed Eleonora, di lavorare nell'azienda di famiglia. Questo dialogo con Charrère, così come le chiacchierate vis à vis, sono sempre interessanti, essendo un oratore e un conversatore efficace con una dialettica ficcante che trasuda passione.
E proprio sulla passione, Costantino ha detto in un'intervista: «Ce ne vuole tanta in un territorio come il nostro. Questa passione è in qualche modo legata alla terra, una passione materiale che però deve scontrarsi oggi con la comunicazione. Alla sostanza bisogna dare una forma. Le due cose devono andare insieme: la forma è importante ma non deve essere una tecnica per vendere fumo. Mentre oggi spesso vince la formula che vende fumo. Questa non è la nostra filosofia». Basti pensare nella logica positiva e non fumosa all'ultima idea realizzata, quel "Rifugio del Vino", che sublima e cementa il rapporto fra azienda vitivinicola e i propri clienti. Ma dicevo del dialogo dell'altra sera, che è avvenuto in un contesto particolare e in presenza di Sergio Péaquin, già politico di lungo corso, grande appassionato di bocce e presidente in carica dei viticoltori di Saint-Vincent. E' stato lui a testimoniare, in contrasto con la success story di Costantino (di recente testimonial della grande viticoltura in Italia in un libro del fondatore di "Eataly", Oscar Farinetti), l'incredibile storia della viticoltura in quella che è stata definita la "Riviera delle Alpi" e che era un tempo - lo testimoniano i documenti del passato e pure la toponomastica legata alla vigna - una delle terre a maggior vocazione vitivinicola in Valle d'Aosta e che oggi appare ormai quasi al tramonto con pochissimi appassionati rimasti ed uno scarsissimo ricambio generazionale. Così le vigne abbandonate sono destinate a scomparire per sempre con i limiti ai reimpianti che ci sono nell'Unione europea a fronte di quella sovrapproduzione che incombe anche per via, in Europa, delle conseguenze del riscaldamento climatico, che sposta sempre di più verso Nord la linea del vigneto. Ma torniamo alla storia di successo, utile come elemento comparativo. Vediamo cosa dice il sito di "Les Crêtes" nella parte storica: «Fu il trisnonno Bernardin Charrère, proveniente dall'attuale Alta Savoia ad immigrare in Aymavilles intorno al 1750. Lì costruì l'immobile ancor oggi esistente con cantine e frantoio per le noci. Il bisnonno Etienne continuò l'attività inserendo anche la produzione di sidro secondo necessità della moda e dell'economia del tempo mediante l'aggiunta di un'ulteriore macina. Il nonno Louis costruì poi un mulino per macinare frumento, segale ed orzo perché ancora una volta così voleva il mercato e chi è lungimirante sa riconoscere i segni del tempo adeguandosi. Antoine, padre di Costantino, che gli successe, continuò l'attività fino al 1955 quando cominciarono ad arrivare da fuori valle oli d'oliva e macinati. Fu nuovamente necessario riconvertirsi e la linea scelta questa volta fu quella dei vini pregiati. Ancora una volta si pose l'attenzione al pubblico e per meglio distinguersi si cominciò un'opera di personalizzazione a livello colturale ("crus" vinificati separatamente), commerciale (indicazione locazioni geografiche di ciascun vigneto), e storico (fedeltà ai vitigni autoctoni che avrebbero fatto grande la Valle d'Aosta come il "petit rouge", il "fumin", il "prié rouge", il "tinturier"). Costantino, atletico professore di ginnastica, come la moglie peraltro, e maestro di sci, ha continuato l'opera del papà Antoine e della mamma Ida, dedicandosi con passione alla viticoltura. Dapprima selezionando vitigni che altrimenti si sarebbero persi nelle montagne valdostane: la "Premetta" (Prié Rouge), rarissimo vitigno in via di estinzione, le cui uve sono ora vinificate in purezza secondo un protocollo innovativo in spumante metodo classico e il "Fumin", altro ceppo "autoctono", salvato dall'estinzione e vinificato con risultati eclatanti, tanto da meritarsi già nel 1999 l'attenzione della critica nazionale con "Il sole di Luigi Veronelli". In seguito, lasciato l'insegnamento, Costantino è spinto dal desiderio di dedicarsi completamente alla sua passione per il vino e realizzando quella che è ora "Les Crêtes", sempre in Aymavilles, impiantando nuovi vigneti anche in altri Comuni della Valle d'Aosta. Oggi, l'azienda, di proprietà della famiglia Charrère, gestisce venti ettari di vigneto distribuiti in sei comuni valdostani. Con la sua produzione annua di 170mila bottiglie è la più grande azienda privata operativa sul territorio regionale". Il grande Veronelli, antesignano della filosofia dei prodotti di qualità e di un mondo contadino onesto, nonché primo divulgatore dell'enogastronomia per scritto ma anche in televisione (con la straordinaria Ave Ninchi), amava la Valle d'Aosta e i suoi vini e i vignerons che lo producono ed ho avuto il privilegio di conoscerlo con quel suo spirito caustico e un'indomabile curiosità. Certo colpisce che nel tempo, anche se la vigna ha perso enormemente terreno rispetto al passato, ci sia un gruppo meritorio di viticoltori, compresi dei giovani, che tengono alta la bandiera dei vini rossoneri e dei vitigni - alcuni autoctoni, particolarissimi - della Regione. Ma il caso di Saint-Vincent è la punta di un iceberg che dimostra come accanto alle eccellenze ci siano anche sempre più visibili situazioni di abbandono e di degrado, cui bisogna reagire.