Le radici ci sono e non si può di certo far finta di non averle, perché gira che ti rigira devi fare i conti non solo con chi sei, ma anche da chi provieni. Esercizio che poi uno prosegue nella propria vita, cedendo il testimone ai propri figli, e c'è qualcosa di bello e consolante nel "dopo di noi", che tanto prima o poi arriva... E' poetico ma in fondo realista Lev Tolstoj: «Noi moriamo soltanto quando non riusciamo a mettere radice in altri». Incontro spesso delle persone che mi parlano di mio padre: chiamato in famiglia - l'ho visto anche da lettere di mia nonna in cui si capisce che era una "peste" - Sandrino, perché era uno dei figli più piccoli. Quel che si ricordano è che, come veterinario, era uno sgobbone, sempre a disposizione per le visite con un mondo contadino che amava profondamente, ma soprattutto erano del tutto proverbiali le sue barzellette che sparava in ogni occasione, opportune e inopportune. Non era mai ripetitivo, essendo il suo repertorio vastissimo e mi sono sempre chiesto come diavolo facesse ad averne sempre di nuove da proporre.
Questo penchant scherzoso, che specie nell'adolescenza mi innervosiva, perché spesso il papà si infilava in battute piuttosto borderline che mi imbarazzavano, piano piano me lo sono ritrovato addosso - perché alla ereditarietà non si comanda - e cerco di domarne gli eccessi. Mi viene in mente un personaggio dell'infanzia, Provolino, un pupazzo mosso da Raffaele Pisu con la voce di Oreste Lionello, che chiosava i suoi sketch televisivi - quando la televisione era una specie di letteratura - con il diventato proverbiale e istruttivo in certi casi: «Boccaccia mia statte zitta!». Eppure, a conti fatti, ho imparato sin da allora quale fosse il valore terapeutico del sorriso, che poi ha solidi riscontri scientifici, tirando in ballo - ma non vi tedio con le spiegazioni - serotonina e endorfine che ci fanno stare meglio. Ha scritto Marc Lévy: «Réveille-moi donc ton sourire; il suffit d'une minuscule graine d'espoir pour planter tout un champ de bonheur... et d'un peu plus de patience pour lui laisser le temps de pousser». Da questo punto di vista varrebbe il detto provare per credere per confermare come il sorriso sia un bene per sé e per gli altri anche per l'effetto a catena che può innescare. A me è capitato, anche in momenti in cui sarebbe stato bene non capitasse tipo riunione ufficiale o diretta radiofonica, che un nonnulla creasse il terrificante effetto "ridarola" e cioè uno di quegli attimi in cui da solo o con altri non riesci più a smettere di ridere per quanto ti sforzi di farlo. Naturalmente per smettere devi metterti in testa qualche evento terribile o luttuoso, che funga da antidoto e ti faccia smettere prima che sia troppo tardi per riparare. La morale è che bisogna diffidare di chi non sorride mai o - peggio ancora - ha smesso di farlo. Vale anche per chi espone sul viso dei sorrisi d'ordinanza - come dentiere posticce - che suonano di fasullo lontano un miglio. Quella bonomia quasi caricaturale, che troppo spesso ho visto in alcuni che fanno politica, che ha in realtà una dose di cinismo incorporata. In questi tempi cupi, in cui sembrano esserci più pianti che sorrisi, attacchiamoci comunque e con forza alle nostre risate. Anche se guardandosi attorno c'è chi giustamente si preoccupa per un mondo che sembra imboccare strade inquietanti. Il piccolo della nostra intimità e il livello grande dei rapporti nel mondo. Desmond Morris, arguto etologo inglese, ha scritto ed è bene pensarci: «La carezza rifiutata in un momento cruciale, quando era disperatamente necessaria, può facilmente essere l'atto, o meglio il non-atto, che distrugge una relazione e un sorriso non ricambiato, tra due grandi potenze, può portare alla guerra e alla distruzione». Ah, il sorriso!