Pietro Germano, consigliere del Partito Comunista, quando, nel 1964, morì Palmiro Togliatti così parlò, in un passaggio del suo intervento rievocativo in Consiglio Valle, dell'interesse per la Valle d'Aosta del suo schieramento politico: «un esempio chiaro lo abbiamo nel noto scritto redazionale dell'Ordine Nuovo del 1919, riferentesi alla Valle d'Aosta. Allora Gramsci e Togliatti, accennando al posto che la Valle avrebbe avuto in una Repubblica Sovietista Italiana, scrivevano, fra l'altro: "la Valle di Aosta avrebbe il Suo Consiglio composto da valdostani eletti da valdostani, uomini e donne, e questo Consiglio eserciterebbe un potere sovrano per gli affari della Valle". E, più avanti: "La Valle d'Aosta, che non è né francese né italiana ma soprattutto valdostana, deve lottare perché i nazionalisti italiani riconoscano il sacrosanto diritto di parlare e di studiare nella lingua dei suoi antenati e trattare in questa lingua gli affari politici"». In realtà l'articolo non era firmato e più volte ho letto che il testo veniva ascritto alla sensibilità autonomista e all'attenzione al particolarismo linguistico del sardo Gramsci.
Certo quegli anni, sia quelli del primo ma anche quelli del secondo dopoguerra, furono anni caldissimi per l'impegno politico e per la nascita e poi lo sviluppo dei partiti di massa (compreso quel fascismo che affascinò generazioni di italiani). Anche il mondo autonomista valdostano, dopo l'esperienza iniziale della "Ligue Valdôtaine" e poi della "Jeune Vallée d'Aoste", cui seguirono diversi filoni nella Resistenza, con la nascita dell'Union Valdôtaine nel 1945 si uniformò all'idea di un Movimento politico che, nel solco dell'organizzazione dei partiti marxisti-leninisti, divenne in seguito sempre più Partito organizzato. Ho potuto vivere, in questo senso, anni di grande partecipazione con comizi e festeggiamenti vivissimi e soprattutto pieni di gente e pure di idee, senza le quali amministrare sarebbe pura ginnastica . Oggi siamo arrivato all'osso, perché anche la Valle - compresi certi fenomeni nuovi - vive in realtà uno svuotamento dell'impegno attivo in politica e i partiti, quelli sopravvissuti, quelli nati dalle proprie ceneri e certi neonati, boccheggiano con pochi iscritti e difficoltà di militanza vera e propria. L'elettorato o meglio chi non è tentato dall'astensionismo non ha più un senso spiccato di attivismo in prima persona e neppure di fedeltà con affezione al proprio voto, ma è diventato movimentista e cambia cavallo con facilità. E così si può tornare a Gramsci e a quella "La città futura", numero unico pubblicato nel febbraio del 1917 a cura della Federazione giovanile piemontese del Partito Socialista (il PCI nacque nel 1921). Così scriveva: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L'indifferenza è il peso morto della storia. L'indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. E' la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l'intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l'assenteismo e l'indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un'eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch'io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto. E sento di poter essere inesorabile, di non dover sprecare la mia pietà, di non dover spartire con loro le mie lacrime. Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l'attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c'è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti». Certo questo plaidoyer appare oggi datato e certe speranze si infransero in orrori e grigiori del socialismo reale (per restare in Europa, altrove andò pure peggio) e il messaggio va contestualizzato in quegli anni turbolenti, in cui fra i pochi a capire che la Guerra Mondiale sarebbe tornata furono i federalisti. Ma trovo che certa spinte a mettersi in gioco, a vivere e a non lasciarsi vivere in politica, a considerare la rassegnazione come una sconfitta sia intatta nel suo messaggio, incredibilmente attuale. In fondo risvegliare e canalizzare le energie è la sfida futura, senza la quale la stessa autonomia speciale della Valle d'Aosta, se non inserita in un progetto riformista, vivrà un triste declino.