«Volete voi che sia abrogato l'art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, "Norme in materia ambientale", come sostituito dal comma 239 dell'art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 "Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)", limitatamente alle seguenti parole: "per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale"?». Così domenica si vota per le "trivelle": a differenza dei referendum svizzeri, praticati in gran numero, il referendum all'italiana ha l’indubbio svantaggio di avere - nella logica abrogativa - delle domande sempre arzigogolate e di difficile comprensione. In sostanza nel caso in cui votate per il "sì" sceglierete di abrogare questa parte della norma e dunque, se vincesse il "sì", l’attività delle trivelle cesserebbe immediatamente alla data di scadenza della concessione. Se a vincere fosse il "no" le trivelle potrebbero prorogare la concessione fino all'esaurimento del giacimento di petrolio o gas.
Io voterò "sì", pur essendo il tema assai distante dalla Valle d'Aosta, che non si affaccia - purtroppo - sul mare e non mi infilo neppure nel dedalo delle norme, che è molto complesso. Valga il principio che non si può trivellare, con il rischio di colpire zone straordinarie del Mediterraneo, senza un ragionevole accordo con le Regioni interessate e sia chiaro che queste scelte non influenzano le forniture di gas in Italia, visto che la produzione nazionale copre solo il dieci per cento del totale del fabbisogno. Una logica autonomistica, quella del coinvolgimento della democrazia locale, che a Matteo Renzi fa schifo, come si vede dalla sua riforma costituzionale che consente allo Stato qualunque cosa in materie come quella energetica (pensiamo al nostro idroelettrico). In queste ore, tra l'altro, viene votata in seconda e definitiva lettura, in una Camera deserta, quella riforma costituzionale che per legge verrà sottoposta a referendum confermativo in ottobre con il Premier che dice: «se non passa me ne vado a casa». Della Riforma scrive il costituzionalista Michele Ainis sul "Corriere", in una logica di neutralità, dopo che - ad essere onesti - ha già scritto peste e corna (ed io condivido) su alcuni aspetti delle nuove norme costituzionali. Ainis: «Chi l'avrebbe detto? Un Parlamento espresso con una legge elettorale (il "Porcellum") annullata poi dalla Consulta; sbucato dalle urne senza una maggioranza chiara, anzi con tre grandi minoranze (Partito Democratico, Forza Italia, "Movimento 5 stelle") armate l'una contro l'altra; lì per lì incapace perfino d'eleggere il Capo dello Stato, tanto da confermare l'uscente (Giorgio Napolitano), episodio senza precedenti, prima di eleggere Sergio Mattarella; ecco, quelle Camere impotenti timbrano la riforma più potente, consegnando agli italiani una Costituzione tutta nuova. Sicché adesso tocca a noi, ci tocca la parola. Ma è una parola secca: sì o no, prendere o lasciare. Per non sprecare quel monosillabo dovremmo ragionarci sopra, dovremmo soppesare la riforma, senza furori ideologici, senza tifo di partito». Prosegue poi: «Al referendum vince o perde l'Italia, non Matteo Renzi. La Costituzione gli sopravvivrà, a lui come a noi tutti. Dunque la scelta investe il nostro destino collettivo, non le fortune di un leader. E dietro l'angolo non c'è affatto il rischio d'un "ducetto"; semmai rischiamo un'altra Caporetto. Perché le istituzioni repubblicane, dopo settant'anni d'onorata carriera, hanno vari acciacchi sul groppone; la cura ri-costituente può guarirle, ma può altresì accopparle. Sarebbe stato giusto concederci l'opportunità di rifiutare o d'approvare questa riforma per singoli capitoli, nei suoi diversi aspetti. Non è così, il nostro è un voto in blocco: se vuoi la rosa, devi prenderti le spine. Ciò tuttavia non cancella l'esigenza d'esaminare il testo "nel dettaglio", come auspica un folto gruppo di costituzionalisti su "federalismi.it". Scorporando le questioni, magari in ultimo potremmo stilare una pagella, mettendo su ogni voce un segno meno o più. Se le promozioni superano le bocciature, voteremo sì; altrimenti bocceremo tutta la riforma. Se invece la somma è pari a zero, significa che non è cambiato nulla. In Italia succede di sovente». Per me, ma per ora è un parere personale, sono più le parti negative, anche per la piccola Valle d'Aosta e ci saranno i mesi a venire per spiegarlo. Un esempio da Ainis: «Primo: il potere. La riforma lo concentra, lo riunifica. Una sola Camera politica (l'altra è una suocera: elargisce consigli non richiesti). Un governo più stabile e più forte, senza la fossa dei leoni del Senato, che ha divorato Romano Prodi e masticato tutti i suoi epigoni, nessuno escluso. E uno Stato solitario al centro della scena. Via le Province, pace all'anima loro. Via le Regioni, cui la riforma toglie di bocca il pasto servito nel 2001, sequestrandone funzioni e competenze: dal federalismo al solipsismo. Perciò il decisionista Carl Schmitt voterebbe questo testo, l'autonomista Carlo Cattaneo lo disapproverebbe. Voi da che parte state? Secondo: l'efficienza. Una maggior concentrazione del potere dovrebbe assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della semplificazione. L'iter legis, per esempio: qui danno le carte soltanto i deputati, tuttavia il Senato può emendare, la Camera a sua volta può respingere a maggioranza semplice, ma talora a maggioranza assoluta. Mentre rimangono pur sempre ventidue categorie di leggi bicamerali. Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di rivelarsi inefficiente. E voi, siete teorici o pragmatici?». Io, come federalista, sono pragmatico e vedo il poco di federalismo della riforma del 2001 buttato alle ortiche e non mi stupisce che Renzi alla Camera abbia detto di non aver messo mano alle Autonomie speciali per mancanza dei numeri per farlo. Testuale: «E' vero che non abbiamo riformato le Regioni a Statuto speciale (...). Non c'era una maggioranza sufficiente per approfondire la questione». Come dire: un giorno verrà...