Devo dire che chi mi conosce sa bene che ho sempre discusso vivacemente sul "Tor des Géants". Non ho mai nascosto la mia ammirazione per gli atleti e espresso pure qualche dubbio su altre cose e ricorro all'autocitazione, scusandomi per il vezzo. Scrivevo nel 2013: «Non conosco bene il "Tor des Géants", la sua genesi e chi siano i privati che l'organizzano. Immagino che, assecondati dalla Regione e con il gran numero di volontari e la la loro generosità, abbiano proposto al momento giusto questa gara, seguendo la moda del "trail", la montagna di corsa, a rotta di collo. Difficile dire ora se questo fenomeno attecchirà o sarà un fuoco di paglia».
«Va dato atto - continuavo - che la gara ha avuto successo e si è creata, anche in Valle d'Aosta, dove ognuno ha un amico o un parente "tordipendente", una viva curiosità per la competizione. Ad amplificare, qui da noi, ci hanno pensato i media, che hanno seguito - in vario modo - il "Tor", e che hanno consentito anche al più pantofolaio di immedesimarsi nel ritmo infernale - e certo da non imitare per chi non sia allenato a dovere - dei "giganti". Si sappia che ammiro moltissimo sia gli atleti di rilievo che quelli della domenica, accomunati da un'esperienza di una rudezza implacabile. Non so valutare il rapporto costi-benefici, ma immagino che chi ha investito parecchio denaro pubblico abbia fatto le sue valutazioni, per cui non mi azzardo ad esprimermi sul punto. Non so neppure l'esatta ricaduta nazionale e internazionale dell'evento, facilmente rilevabile da "rassegne stampa" et similia e vale quanto detto sopra. Ci sarà chi valuta». Scrivevo nel 2014: «La montagna, nell'ordinario, come va affrontata? Per quel che mi riguarda, penso che ci si debba rifare a quell'educazione sentimentale alla montagna, che nel passato faceva parte della formazione di ciascuno di noi. Oggi lo chiamiamo "slow walk" nella logica dell’anglofilia, ma il "camminar lento" ha un suo perché. Non solo perché camminare in montagna ha sempre avuto, che fosse la famiglia o gli amici, una componente sociale forte, ma perché da sempre la montagna è scoprire la bellezza dei luoghi e questo lo si deve fare con il tempo necessario per fruire di questa contemplazione, che è poi il valore aggiunto del territorio che si percorre. Su questo credo che ci debba intendere: non esiste una logica contro chi vuole correre e correre, ma bisogna evitare che possa ingenerarsi qualche equivoco su quale debba essere il "core business" (beccatevi l'anglicismo) del prodotto turistico. Leggo dépliant di località turistiche, che sembrano ormai votate a sport estremi con annessa esaltazione dell'adrenalina e che paiono ormai rivolgersi a dei turisti degni di John Rambo. Per carità, va bene, ma rispetto all'utenza potenziale - la sacrosanta famiglia del turismo trentino e tirolese - restano una minoranza da coccolare, ma da non ritenere il modello unico cui uniformarsi. Ma, si sa, che il marketing turistico ci ricorda che siamo delle scimmie e come tali abituate all'imitazione e alla ripetizione degli stessi modelli, quando ognuno dovrebbe farsi forte di una propria vocazione. Questo vorrebbe dire cercare il proprio spazio, evitando di cedere alle mode, che come tali sono destinate ad arrivare sulla scena e poi a tramontare. Soprattutto perché - è il caso proprio del "trailrunning" nelle sue diverse declinazioni - esiste un oggettivo rischio di eccessiva moltiplicazione delle competizioni, come si vede nella fioritura di corse di questo genere anche in Valle». Scrivevo nel 2015: «Quest'anno le previsioni meteo erano ben note e dunque la scelta di dare regolarmente il "via" è stata un azzardo immagino calcolato, che si è infranto contro le circostanze del tutto previste con la ragionevolezza scientifica. Comprensibile la conseguente delusione per i partecipanti incappati in uno "stop" definitivo. Ed anche con il dispiacere - perché la gara è così - per amici e parenti che seguono la competizione, che risultata abbastanza snobbata dalla grande stampa nazionale internazionale. Oggi, fare una "rassegna stampa" è questione più semplice del passato e, tolta tutta la retorica che sempre avvolge competizioni estreme da che mondo è mondo, resta il discorso di valutare costi e benefici nell'impatto promozionale. La stagione prescelta, d'altra parte, è ovvio che sia soggetta a rischi di cattivo tempo, che in quota significano ghiaccio e neve. Lo si è visto la prima notte con un tempo da tregenda, che avrebbe potuto mietere anche qualche vittima e in certe circostanze non ci si può affidare solo alla buona stella, che sinora ad oggi aveva certamente brillato, considerato il periodo. Ha ragione il mio amico, alpinista e guida alpina, Abele Blanc, a dire in sostanza e con una certa rudezza che questa è una gara da duri e chi non lo è stia a casa, ma è anche vero che - a differenza ad esempio dell'"Ultratrail du Mont Blanc" - al "Tor" non si chiede un curriculum o qualche tipo di punteggio pregresso per la partecipazione. E spesso arrivano atleti da Paesi lontani (come non pensare al povero cinese morto nel 2013 durante la gara, causa le avverse condizioni meteo), che forse non hanno esatta percezione dei rischi che si corrono a quote così elevate. Pensando poi che non abbiamo solo atleti giovani, come avviene in altri sport, ma ci sono persone di tutte le età, anche piuttosto avanti con gli anni, compresi quelli che usano questo cimento per misurare le proprie forze o dimostrare di essere "ganzi". Lo dico naturalmente con malcelata invidia per l'intrinseco machismo. Chi, come me, si è occupato dell’organizzazione di gare con qualche analogia - come fu il "Trofeo Mezzalama" - sa quanto sia importante, ad esempio, riflettere sulle attrezzature da rendere obbligatorie e mi pare d'aver letto che lo stesso Lucio Trucco, esperto di grande fama come alpinista e soccorritore, abbia cominciato a parlare di rendere obbligatori ramponcini, che evitino scivolate mortali se la temperatura si abbassa e spunta il gelo. Lo stesso vale, ma immagino che già sia stato trattato, per il vestiario che deve evitare che, in caso di emergenza, si possa finire male troppo facilmente per ipotermia. La Regione Valle d'Aosta, che è uno degli "main sponsor", dovrà far sentire la sua voce rispetto ad un'organizzazione privata della gara, che pure però ha un sostegno evidente del "Pubblico" e soprattutto ha una rete di generosissimi volontari che ci mettono tempo e energia di tasca loro. Per cui forse, anche se certo non spetta a me, sarebbe bene capire - ammesso che non sia già manifesto - quali siano i reali margini di redditività per chi organizza competizioni di questo genere. Bisognerà poi fare scelte sempre più meditate sulla sicurezza per prevenire incidenti, altrimenti - a fronte di drammi in gara - non si potrebbe di certo "faire semblant de rien"». Alla fine - 2016 - si finisce davanti al Tribunale delle Imprese di Torino perché la Regione, con l’ausilio dell'ormai "prezzemolino" Forte di Bard, ha deciso di farsi una sua gara e, almeno per ora, nel decreto di fissazione dell'udienza preliminare il Giudice Marco Ciccarelli picchia duro sulla nuova competizione e sugli atteggiamenti che la sottendono. Un decreto che è avvenuto, come si dice in latino, "inaudita altera parte", cioè il Magistrato non ha ritenuto necessario per decidere in questa prima istanza di sentire la controparte. Comunque, in qualunque modo andrà a finire la sentenza vera e propria prevista tra quindici giorni, ci perde di certo lo Sport e l'immagine della Valle d'Aosta.