Un tempo per "Carnevale" si intendeva solo il "martedì grasso", definito nella vecchia parola come "Carnelevare", cioè il giorno precedente l'inizio della Quaresima, quando la privazione del cibo ("carnem") diventa un precetto. Ormai la definizione ha un senso esteso ad un periodo ben più lungo e con manifestazioni varie che causano due sentimenti contrapposti e secchi: o piace (con diversi livelli di adesione) o non piace affatto. A me piace, senza farne qualcosa di esagerato, vivendo nella sua attesa in modo spasmodico come capita per alcuni aficionados che conosco. E, nella realtà valdostana, il Carnevale è una cartina di tornasole molto interessante di come la tradizione muti nel tempo.
A tradizioni più antiche, che pure ovviamente cambiano perché nulla è immutabile, si affiancano tradizioni che nascono da idee nuove che piano piano si consolidano diventando alla fine anch'esse, se ce la fanno a sopravvivere e corrispondono ad un idem sentire popolare, tradizioni a tutti gli effetti. Ovviamente, oltre a queste tradizioni che appaiono nuove sulla scena e alle tradizioni più antiche viventi benché in movimento, ce ne sono che muoiono, perché le civiltà - o pezzi di esse - se ne vanno nel cammino dell'umanità, che corrisponde così alla nostra condizione umana e ai cicli naturali della vita. Fra questi Carnevali più moderni, novecenteschi, ci sono Verrès, Pont-Saint-Martin, Saint-Vincent, solo per citarne alcuni, mentre i Carnevali delle vallate del Gran San Bernardo hanno radici storiche secolari e solide. Ne scrive in un suo saggio breve, rinvenibile sul suo sito, lo studioso Alexis Bétemps. Mi permetto di profittare di qualche passaggio, consigliandone la lettura completa: «Il carnevale non ha mai avuto una vita facile in Valle d'Aosta. Troppo trasgressivo, residuo del paganesimo che la chiesa non ha mai saputo riciclare, tacciato di empietà e d'immoralità, è evocato nei documenti solo per essere esecrato e punito. Sotto l'Ancien Régime, spesso su istigazione del clero, era sanzionato dall'autorità civile, che adduceva come pretesto i disordini che causava (schiamazzi, violenze, vandalismi). Era combattuto soprattutto durante le epidemie e le guerre, ahimè ben frequenti, ma, in altre occasioni, anche se non ufficialmente, era invece tollerato. Con l'Illuminismo, la sua fortuna presso le élites non muta: i conservatori, appoggiati dalla Chiesa, lo vivono sempre come una manifestazione di paganesimo e i liberali, ligi alla dea Ragione, vedono nel carnevale ignoranza e superstizione, eredità dell’odiato Ancien Régime. Ma il ceto popolare, scevro di ogni ideologismo, soprattutto nelle campagne, continua imperterrito col suo carnevale, fatto di costumi riciclati e di sfilate improvvisate, di canti sguaiati e di scherzi anche pesanti, di abbuffate (quando si può!) e di balli campestri, di aggressività e di trasgressione. Le critiche dei giornali benpensanti, le prediche minacciose dei parroci, le interdizioni del regime fascista, hanno forse cancellato la tradizione carnevalesca in alcune parrocchie, ma in altre, la grande maggioranza, l'hanno insaporita col gusto del frutto proibito ed hanno contribuito così al suo mantenimento». Poi la spiegazione del Carnevale più storicizzato: «La Combe-Froide o Comba frèide in patois, che ha dato il nome al carnevale da noi considerato, è l'espressione geografica per indicare la valle del torrente Artanavaz, che dal colle del Gran San Bernardo scende verso Aosta, confluendo nel Buthier. Detta valle comprende i comuni di Gignod, Allein, Étroubles, Saint-Oyen e Saint-Rhemy-en-Bosses. La popolazione della Combe è, giustamente, molto orgogliosa del suo carnevale e ne ha a lungo rivendicato il monopolio poiché lo considera unico nel genere. In realtà, nel campo delle tradizioni popolari, le manifestazioni "uniche" sono molto rare se non inesistenti... Detto ciò, bisogna riconoscere che gli abitanti della Combe-Froide hanno motivo di essere orgogliosi in quanto sono stati i soli a mantenere, nel suo spirito e nella sua complessità, la manifestazione carnevalesca antica». Sulle maschere non mi dilungo, se ne trovano foto dappertutto: dal "Toc" e la "Tocca" (sempliciotti di campagna), a damigelle ed arlecchini con tocchi che talvolta ricordano divise militari, il diavolo e personaggi analoghi a quelli rinvenibili su tutte le Alpi, come l'orso (con domatore) e forme varie di uomo fauno. Il racconto proposto poco più avanti da Bétemps è suggestivo: «Solitamente, ci si dava appuntamento all'ora stabilita in un locale spazioso, un fienile per esempio, o in un'osteria quando c'era. Ognuno arrivava col suo costume sotto il braccio, poi, per evitare che la gente riconoscesse la persona tramite l'abbigliamento, ci si scambiava il costume. Si compravano anche scarpe nuove, tutte uguali, non riconoscibili, e si sopportava stoicamente l'inevitabile dolore ai piedi. Poteva anche accadere che, dopo la prima giornata, si vendesse il costume per comprarne subito un altro, perché il proprietario era stato identificato! L'anonimato era indispensabile per salvaguardare l'identità degli autori di scherzi un po' troppo arditi e anche per accrescere l'interesse degli spettatori dediti al gioco dell'indovina chi. Quando tutti erano pronti, il corteo s'incamminava dietro alla guida, al ritmo dei suonatori e iniziava l'itinerario di visita. L'ordine era prestabilito e fissato dalla tradizione. Le landzette procedevano a coppie (la cobbla), secondo un ordine di colori, precedute dagli arlecchini e dalle damine, dalla guida e dai suonatori che aprivano il corteo. Attualmente, lo scambio dei costumi non avviene quasi più in quanto l'anonimato ha perso molto della sua importanza. Mentre prima si faceva di tutto per non farsi riconoscere, si è diffusa, in alcune bènde, una sorta di narcisismo e la voglia di farsi vedere è sempre più percepibile. Già ministro di un rito arcano, di cui si è dimenticato il significato, la maschera è diventata attore che dopo l'esibizione si mostra al pubblico sotto le sue vere spoglie per riceverne l'applauso». Storia avvincente attorno agli usi e alle consuetudini. L'altro giorno, scendendo dal traforo dal Gran San Bernardo, ho incontrato lungo la statale, su auto strombazzanti, gruppi di questi personaggi in procinto di spostarsi da un paese all'altro. La presenza di tanti giovani metteva, già solo per questo, una grande allegria, perché assicura continuità, anche se ogni epoca ci mette del suo.