Leggevo ieri sul "Corriere della Sera", che si occupa sempre più di montagna, come sta facendo anche l'altro giornale "amico", "La Stampa" (e di riflesso pure "Il Secolo XIX"), il reportage del celebre inviato di guerra, grande sportivo di montagna, Lorenzo Cremonesi. Il suo è un racconto dedicato ad una sciata - assieme alla guida alpina Beppe Villa, che a sessant'anni ha smesso il lavoro di orologiaio per dedicarsi a pieno alla montagna - sui due versanti del Monte Bianco, profittando della funivia nuova di zecca nota come "Skyway". Ma la giornata è anche per Cremonesi occasione per riflettere su questo inverno bizzarro (prepariamoci al fatto che sia fra i più caldi di tutti i tempi) e così ne scrive...
«Il clima è talmente mite che induce a sottovalutare i pericoli. Circa dieci gradi prima di mezzogiorno. Ovvio che anche quest'anno i ghiacciai si abbasseranno ulteriormente. Giù a valle le morene sui due versanti sono diventate profonde e franose. Tre turisti venuti ad ammirare il panorama si lasciano tentare. Superano con il cappotto in mano il cancello che dalla stazione di arrivo sommitale immette alla montagna sul versante francese. Non importa che ci siano segnali di pericolo». Mi fermo qui e ricordo come questa questione del clima, che oggi ci angoscia per le nostre responsabilità umane (per quanto i negazionisti cerchino di dimostrare il contrario), è sempre stato - con i cambiamenti climatici da sempre presenti - un bel rovello in zona alpina. Pensiamo alla "Fiera di Sant'Orso", ormai pronta per essere vissuta domani e domenica (preparandosi alla dovuta calma e lentezza di un prevedibile pienone). Dice il proverbio, dedicato alla data del 1° febbraio, l’indomani dei giorni canonici della Foire: "Se féit solèi lo dzor de Sen t-Ors, l'iver dure incò quarenta dzor" ("Se fa bello il giorno di Sant'Orso, l'inverno dura ancora per quaranta giorni") ed in altra versione questo maltempo si esplicita perché l'orso mette fuori a seccare al sole il pagliericcio e poi torna di nuovo a nanna. Pare essere il caso di quest'anno per il primo giorno. Per altro - a beneficio del secondo giorno - se per caso fa brutto vale il detto, secondo il quale l'orso gira il pagliericcio nella caverna e si addormenta perché tanto farà ancora brutto! Da notare appunto come nella tradizione popolare per questi detti si mischi un Santo avvolto dalla leggenda (Orso, presbitero valdostano, vissuto fra il V e il VII secolo), cui è dedicata la "Foire", con l'orso come l'animale simbolo della forza della Natura. Non a caso è ben presente nei Carnevali di montagna, comprese le maschere della nostra Coumba Freida (proprio nella Valle del Gran San Bernardo sarebbe stato ucciso l'ultimo orso valdostano in carne ed ossa nel 1859). Il 1° febbraio è indicato come data della morte di Sant'Orso, ma ben sappiamo che la "Foire" si lega con sicurezza a festività analoghe di questo periodo, a metà dell’inverno astronomico, fra il solstizio d'inverno e l'equinozio di primavera. Già lo facevano i Celti con la festa nota come "Imbolc" (che vuol dire "in grembo" con riferimento alla maternità pecore, anche se si celebrava la luce), i romani con le celebrazioni della dea Februa (Giunone) con le calende di febbraio e la "Candelora" (festa cattolica così definita anche perché si benedicono le candele), che in parte torna nel Nord America con il "Giorno della marmotta" (altro animale simbolico del risveglio). Insomma: tutto si mischia, nulla si butta via e ognuno ricicla in chiave moderna quanto lo ha preceduto, adattandolo ai propri usi e costumi. Così in fondo avviene con questa "Fiera di Sant'Orso": antica e nuova, tradizionale ed innovativa, piccola e grande, coerente e contraddittoria.