Bisogna evitare di fare dei pasticci nell'esaminare certe questioni, perché si tratta di temi incandescenti che toccano le coscienze e - più prosaicamente - spostano l'elettorato come ridere. Ieri l'editoriale di Franco Venturini sul "Corriere della Sera" mi ha colpito con l'ipotesi che, giunta la bella stagione, arrivino sulle coste italiane sui "barconi della speranza" e spesso della morte fra 250mila e mezzo milione di persone dai Paesi del Terzo mondo, dove ormai la disperazione alberga (l'anno scorso a giungere furono 170mila). Un tempo si usava il termine, poi diventato politicamente scorretto, di "extracomunitario", che poi conteneva anche persone come gli svizzeri o gli statunitensi, oggi si usa il termine "migrante" che è altamente ambiguo e certo non corrispondente alle diverse situazione di chi è immigrato in Italia. Ci sono quelli che hanno cittadinanza italiana e dunque escono dalla situazione pregressa, ci sono quelli in attesa di ottenerla ed hanno residenza da tempo, ci sono rifugiati e no. Insomma, un ampio spettro.
Scriveva qualche anno fa Massimo Cellerino: «rimane difficile definire con certezza la condizione di migrante sotto il profilo giuridico. La "Convenzione internazionale per la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie", stipulata nel 1990 ed entrata in vigore il 1° luglio 2003, definiva migrante "una persona che dev'essere impegnata o che è stata impegnata in un'attività retribuita in uno stato di cui lui o lei non detiene la nazionalità" ("Unhchr" 1990: articolo 2, paragrafo 1). Nel rapporto 1998 alla 54esima sessione della Commissione per i Diritti Umani dell'Onu si legge invece che "Il termine "migrante" (...) dovrebbe essere inteso come riferito a tutti i casi in cui la decisione di migrare è presa liberamente dall'individuo in oggetto, per ragioni di "convenienza personale" e senza intervento di un fattore costrittivo esterno" ("Unhchr" 1998). Nel 2002, tuttavia, in una relazione alla stessa Commissione per i Diritti Umani, Gabriela Rodriguez Pizarro ha proposto di estendere la definizione di migranti anche a: persone che si trovano al di fuori del territorio dello Stato di cui possiedono la nazionalità o di cui sono cittadini, non sono soggetti alla protezione legale di esso e sono nel territorio di un altro stato; persone che non godono del riconoscimento legale generale di diritti che è inerente alla concessione, da parte dello Stato ospite, della qualifica di rifugiato, di naturalizzato o di una condizione simile, persone che non godono neppure della protezione legale generale dei loro diritti fondamentali per effetto di accordi diplomatici, di visti o di altri accordi. Una definizione tanto ampia riflette la difficoltà, in cui si trovano Governi ed agenzie internazionali, di distinguere fra migranti e profughi, fra chi lascia il proprio Paese in cerca di migliori condizioni di lavoro, o di esistenza, e chi lo fa perché costretto da persecuzioni politiche, guerre, crisi economiche, degrado ambientale o da una combinazione di questi fattori. In modo più esplicito si potrebbe dire che il confine fra "migranti" e "profughi" è oggi puramente convenzionale, visto che pressoché tutti i Paesi di emigrazione sono governati, con l'assenso se non con la connivenza esplicita delle democrazie ricche, da dittature e regimi autoritari, in cui i diritti umani vengono quotidianamente violati. "Migrare" (...) significa che (...) una pluralità di individui, provvisti di progettualità e di aspettative diverse, sono disponibili a cercarsi delle chances di vita dove queste sono possibili o promesse. Si tratta di una delle più gravi contraddizioni della globalizzazione, poiché i Paesi più potenti difendono il diritto alla circolazione di merci, capitali, idee e persone, ma solo quando ciò favorisce i loro interessi o può da loro esser controllato; i cittadini dei Paesi poveri sono invece privi di quella stessa libertà di circolazione e sono costretti a vivere nei propri Paesi d'origine o a trasferirsi in modo illegale o clandestino. D'altra parte i Governi delle democrazie ricche sono spesso conniventi con Governi autoritari o dittatoriali e li finanziano allo scopo di ottenere la loro collaborazione nel controllo dei flussi migratori, disinteressandosi delle violazioni dei diritti umani perpetrate da tali Governi". Di fronte a questo quadro di desolazione, l'Europa e in generale la diplomazia languono e, aggiungerei, sommessamente, come il losco affare mafioso dei migranti dilaghi e manchi una visione di medio e lungo periodo che crei certezze. Un modo per evitare che vincano quelli che, esasperati e privi di strumenti per capire la complessità della sfida, buttano solo la benzina sul fuoco e gli incendi poi avvampano. Ma sia chiaro che tutto si può scegliere, ma non bisogna bollare con snobismo certe preoccupazioni, perché è nel terreno dell'indecisione che cresce la gramigna.