La Storia ha strani tempi: sa essere di longue durée e questo significa l’attraversamento di millenni e di secoli e poi, all'inverso, sa dare l'impressione di come anche la brevità di pochi decenni offra l'immagine di scenari incredibilmente diversi. Ci pensavo rispetto a quanto accadde a mio papà Sandro, proprio settant'anni fa di questi giorni, assieme a oltre duecento alpini valdostani, quando vennero deportati nei campi di internamento della Germania nazista. Anticipando un disegno architettato dalle forze partigiane, che prevedeva la diserzione di massa dei militari di stanza ad Aosta, grazie ad una spiata, i nazisti - con la complicità dei fascisti, ormai ridotti a meri esecutori della volontà altrui - spedirono, prendendoli in contropiede, quei ventenni (più militari di carriera, fra cui due Generali) a lavorare per il Reich. Partiti da Aosta, in sosta alla "Bicocca" a Milano, vennero poi smistati nei diversi campi di lavoro fra Germania, Polonia e Cecoslovacchia con uno strano status giuridico, perché non si trattava dei più tutelati "prigionieri di guerra", ma di deportati privi di garanzie delle convenzioni internazionali. Papà, dopo un primo internamento, si trovò nella baracche per i lavoratori afferenti il campo di sterminio di Auschwitz. Un giorno, alla fine luglio del 1944, fu un prete polacco a spiegargli il meccanismo di funzionamento della macchina di sterminio nazista: gli ebrei (che i prigionieri italiani chiamavano la "Juventus" per via delle divise bianche e nere) venivano prima gassati e poi bruciati nei forni crematori. Papà sapeva bene delle leggi razziali, ma non l'orrore dell'Olocausto, visto che nei mesi precedenti aveva accompagnato ebrei in fuga dall'Italia in Svizzera e per questo, ormai anziano, fu designato come "giusto" dalla Comunità ebraica torinese. Durante l'internamento tenne un diario, a partire dal giorno dell’arresto fino al rientro in Valle d’Aosta nel maggio del 1945, scrivendo sui fogli a matita in un piccolo notes informazioni e pensieri sintetici. Compresi fatti "politici": ad esempio si legge dell'anno possibile morte di Adolf Hitler o della fierezza del fatto che mai nessuno del loro gruppo di prigionieri accettò di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò, come veniva richiesto. Dà conto anche di un primo tentativo di fuga finito male e poi dello spostamento verso il Tirolo, perché i russi incalzavano da una parte sul fronte e gli americani dall'altra e loro erano sballottati di città in città. Poi, il 1° maggio del 1945, una seconda fuga, questa volta decisiva, perché le "SS" che controllavano il campo si erano fatte ancora più minacciose. Segue l'avventuroso rientro: prima del confine è un soldato italo-americano di origini liguri a dare la loro la possibilità di scegliere un mezzo per tornare a casa e loro scelsero un'ambulanza con cui prima arrivarono, attraverso il Brennero, a Milano, puntando poi su Ivrea, dove papà prese il treno - biglietto pagato da un giovane studente valdostano, Giorgio Vassoney, che lì incontrò - arrivando ad Aosta, ridotto a pelle e ossa, ma vivo. Non sapeva bene che cosa avrebbe trovato e scoprì due cose: il fratello Emilio, in certi momenti della sua prigionia, essendo anche lui internato, si trovava abbastanza vicino a lui, ma lo sapevano solo i familiari che ricevevano delle lettere da entrambi e poi - fatto terribile - scoprì della scomparsa del fratello Antoine, morto per un colpo partito accidentalmente durante i festeggiamenti per la liberazione di Aosta il 28 aprile. Morte celata agli anziani genitori. Ricordo di aver fatto da moderatore, tanti anni fa, di un incontro intitolato "Avere vent'anni nel 1943", in cui anche papà raccontò la sua avventura. Una storia personale, che si incrociava con la storia del mondo e che lo aveva segnato in profondità. Aveva visto gli orrori e aveva vissuto della quotidiana paura di morire, che lo aveva reso - nello stesso tempo - un uomo sempre scherzoso, ma con una melanconia di fondo di chi si porta nella mente certi ricordi drammatici, che restano indelebili. Per me è sempre valso come insegnamento e ammonimento. Mi fa piacere che i miei figli, in particolare Laurent per la "Maturità", si siano messi a studiare questa carte, dopo aver entrambi visitato, qualche anno fa, con emozione pensando anche al nonno, Auschwitz. Un vaccino "democratico" che li accompagnerà per tutta la vita.