Quando ero piccolo, il termine "tatuaggio" (registrato dall'esploratore James Cook e proveniente dal tahitiano "tatau") era adoperato raramente. Ricordo, da guardare con circospezione, dei marinai al porto di Oneglia, che erano tatuati e facevano ammirare questa cosa anche ai bambini. Ma si trattava di un fatto fenomenale e memorabile. Per altro, scorrendo un'enciclopedia sui popoli del mondo che c'era nella libreria di casa, mi ricordo il vivo stupore quando guardavo le fotografie dei Maori della Nuova Zelanda. Ricordo anche e qui lo trascrivo l'impressione ricavata dal libro di Herman Melville, "Moby Dick", quando descriveva il bizzarro ramponiere polinesiano con i suoi tatuaggi: "E questo tatuaggio era stato opera di un defunto veggente e profeta della sua isola, che con quei geroglifici gli aveva tracciato addosso una teoria completa dei cieli e della terra, e un trattato misterioso sull'arte di raggiungere la verità. Sicché Queequeg era nella sua stessa persona un enigma da sciogliere, un'opera meravigliosa in un solo volume, ma i cui misteri neanche lui sapeva leggere, per quanto pulsassero con gli stessi battiti del suo cuore: questi misteri erano perciò destinati a sgretolarsi alla fine assieme alla viva pergamena su cui erano tracciati, e così a restare insoluti per sempre". Poi, di pari passo, con la mia crescita ho visto affermarsi il fenomeno come elemento di costume, che mi pare - dal numero dei tatuatori in giro - piuttosto stabilizzato. Io non lo farei mai e non per paura del dolore, ma perché già non porto oggetti di nessun genere sulla pelle - orologio compreso - e considererai un tatuaggio come qualche cosa di invasivo. Ma ricordo di aver visto amici e amiche impegnati nell'impresa con più o meno resistenza al dolore e di aver sempre guardato con viva curiosità quei cataloghi pieno di figure possibili, che fungono da modelli nelle anticamere dei tatuatori. Quando a Bolzano ho visto il corpo mummificato del famoso "Uomo del Similaun", dal ghiacciaio, dove venne ritrovato nel 1991, al confine fra Tirolo del Sud e Nord Tirolo, mi è stato spiegato che Oetzi aveva sul suo corpo una cinquantina di tatuaggi. Allora non si usavano, come oggi, degli aghi, ma si incideva la pelle per poi far spiccare il tatuaggio con del carbone vegetale. Si tratta di crocette, punti, linee, che dovevano avere una motivazione curativa (qualcuno azzarda punti dove praticare agopuntura) o di simbolistica religiosa. Questo progenitore alpino è vissuto nell'Età del rame e dunque in un momento di passaggio fra il Neolitico e l'Età del bronzo, in un lasso di tempo che oscilla fra il 3300 e il 3200 a.C.. E' probabile che anche gli antichi popoli abitatori della Valle d'Aosta si tatuassero, ma anche una parte dei soldati veterani che fondarono Augusta Prætoria portavano di certo incisa sulla pelle la legione di provenienza o il famoso "S.P.Q.R. - Senatus PopulusQue Romanus". Tornando alla contemporaneità. Noto segni di pentimento da parte di chi ha inciso sulla pelle nomi di persone con cui hanno vissuto amori finiti. Ho riso di chi, per la trasformazione del proprio corpo, ha dei tatuaggi che non sono neanche più del tutto leggibili. Nascerà prima o poi lo "statuatore" - so che lo fanno già i chirurghi plastici - per cancellare "tribali" adolescenziali. Annovero anche qualche caso di scritte in lingue eccentriche, dimostratesi poi o sbagliate o con significati assai diversi da quanto pensasse il soggetto tatuato. Mi è stato raccontato, infine, in un recente viaggio a Genova e per chiudere la casistica, come le bande di ragazzi di origine sudamericana abbiano un codice molto preciso, che passa anche attraverso la fattura dei tatuaggi che portano. Nulla cambia, insomma, in questa umanità che acquisisce abitudini, le perde, le ritrova, anche - per chi lo fa - incidendo la propria pelle.