In una pagina del sito di "Slow Food", c'è un titolo immaginifico, che dice "Resistenza casearia". Non stupisce che ci siano espressioni così politiche, visto che una larga parte del primo gruppo dirigente di questa associazione aveva una matrice sessantottina o, come si diceva una volta, "extraparlamentare" di sinistra. Non sarà mai stata fatta la "Rivoluzione", ma certo la difesa e lo sviluppo dei prodotti tipici e del vasto filone dell'enogastronomia ha supplito per molti al "sol dell'avvenire" mai sorto. Certo nella presentazione sui formaggi sono esemplari: "Ogni latte parla di un luogo, di un animale, di quel che l'animale ha mangiato. Così, quando dal latte si fa formaggio, queste caratteristiche vengono trasferite al prodotto finale, un prodotto che racconta la storia di un territorio e ne descrive le caratteristiche... Nel bene e nel male". Giustissimo, condivido. Aggiungerei l'essenziale componente umana, che fa sì che ogni popolo sia riuscito, laddove possibile, ad esprimere una sua variante culturale del formaggio, evitando così una uniformità. Leggiamo ancora: "Nel mondo esistono circa duemila tipologie di formaggi, alcuni antichissimi, altri più moderni, i quali si differenziano per il tipo di latte da cui derivano e per tecnologia, sia di produzione che di stagionatura". Insomma l'arte casearia è per le sue tecniche e per il prodotto ottenuto un petalo del grande fiore della diversità culturale che rende ricca l'umanità. Mi viene sempre da sorridere di quella frase attribuita al Generale Charles De Gaulle: «Comment voulez-vous gouverner un pays où il existe variétés 365 de fromages?» Frase dall'origine incerta e dai numeri cangianti: chi dice che ne citasse 246, chi 258 e chi sale fino a seicento. Ma la sostanza non cambia: tante teste, tanti formaggi. Quattrocento, di cui un trentina riconosciuti e protetti, sono, invece, i formaggi in Italia, secondo i dati che ho trovato. Mentre scrivo, provo a vedere sin dove possono arrivare le mie conoscenze nell'elencarli ed è fantastico come la sola evocazione riporti, dalla memoria sino alle papille gustative, i differenti sapori e gusti di questa ricchezza di formaggi. Leggevo in questi giorni, ma si potrebbe tornare indietro di dieci anni, vent'anni o trent'anni della periodica polemica valdostana sul futuro del nostro prodotto di punta: la "Fontina". Quando la trovo in rivendite o ristoranti distanti dalle nostre latitudini, ho sempre un moto di orgoglio e persino uno stupore, che la dice lunga sulle scarse aspettative che ho interiorizzato. Leggo che si ribadisce l'importanza della qualità, come elemento premiale per il produttore e me ne compiaccio. La storia è sempre la stessa: come spiegare al consumatore che una "Fontina" prodotta in alpeggio con vacche nutrite dalle erbe di pascolo è equivalente al derivato del latte di una bovina chiusa in stalla e alimentata con fieno non sempre (ma in violazione del disciplinare) autoctono? Si tratta di un tema tabù: chi lo tocca, muore. Per cui ci si gira intorno con dei ragionamenti ellittici, che non vanno al punto. Ma so che è solo uno dei problemi: ce ne sono tanti altri, che vanno da problemi produttivi e di mercato, di "brand" e di marketing, di rete commerciale e di protezione dalle imitazioni. Molti esperti, posti al capezzale, potrebbero dir la loro e non mancano approfondimenti già fatti. Con tanti formaggi in Italia e nel mondo, basterebbe guardare che cosa fanno gli altri, per avere, infine, a vantaggio del nostro formaggio "dop", un proprio modello complessivo più efficace dell'attuale.