Per chi si occupa da tempo dei problemi delle montagne in Italia, il libro di Marco Armiero, "Le montagne della patria", pubblicato da "Einaudi", è molto interessante, perché conferma piste già battute nel tempo, ma con un approccio originale, e apre anche spazi di riflessione nuovi. Armiero - come risulta dai rapidi riferimenti sul libro - è uno storico dell'ambiente,direttore dell'"Environmental humanities lab" del "Royal institute of technology" a Stoccolma. Ha svolto attività di ricerca presso la "Yale university", la "University of California at Berkeley" e la "Stanford university". E' stato "Marie Curie fellow" presso la "Universitá autonoma" di Barcellona e "visiting researcher" al "Centro di studi sociali" dell'Università di Coimbra. In Italia è primo ricercatore presso l'Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del "Cnr". Verrebbe da dire: un cervello in fuga, alla ricerca di quegli spazi di studio e di insegnamento che le Università italiane non consentono, ma e solo una mia impressione. Comunque sia, i capitoli del libro tracciano con realismo diverse storie attorno alla montagna italiana, ammettendo sin dall'inizio un fatto ben noto a chi delle montagne si è occupato in politica: l'Italia dimentica spesso - nella visione stereotipata del belpaese o nel solo uso strumentale - quantità e qualità dei territori e delle popolazioni montane. In parte questo è avvenuto anche per la pigrizia e il disinteresse del mondo accademico, ma anche per la difficoltà delle montagne italiane - e le Alpi non sono l'Appennini e viceversa - di fare davvero sistema. Il primo capitolo, dedicato alle "montagne selvagge", è un godibile excursus di come le montagne - sempre rimaste le stesse - mutino nella percezioni culturale che attraversa le epoche e anche nell'approccio politico con quel gruppo "Parlamentari Amici della montagna" nato alla Camera a fine Ottocento e che io stesso ho presieduto un secolo dopo. E' interessante come, nel dibattito, si incrocino mito e realtà, luoghi comuni e dati economici, tradizione e modernità. Il caso dello sfruttamento dell'energia idroelettrica è segno tangibile di come certi gruppi di pressione - tipo "Touring club italiano" - plaudissero, all'epoca dell'assalto, alle bellezze montane e al ruolo dei montanari e intanto venissero finanziati dalle rapaci società elettriche. Si direbbe: conflitto di interesse... Così come è altrettanto esemplare lo sviluppo dell'alpinismo di massa da parte del "Club alpino italiano" (interessante la parte sul Cervino e Cervinia, su cui - lo ricordo - scrisse anche Emile Chanoux), gravemente compromesso, a livello nazionale, con il fascismo (in Valle d'Aosta meno). Quel fascismo che vuole nazionalizzare - e i valdostani lo sanno bene e lo ricorda in un passaggio l'autore - le montagne, che diventano terreno del centralismo, come avviene con la lotta alle proprietà collettive e gli usi civici o con la nascita della "Milizia forestale", che usa metodi colonialisti nel rapporto con i montanari sotto la direzione di Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, cui si deve la spassosa battaglia fascista contro le capre. Ma spunta anche la figura, sul ruolo del bosco, del botanico Lino Vaccari, importante anche per la nostra "Société de la flore valdôtaine". Così come il fascismo, con Benito Mussolini ritratto a torso nudo che scia al Terminillo nel disegno da "MinCulPop" sulla "Domenica del Corriere", sfrutta gli spazi propagandistici dello sci, come avvenne - fatemi aggiungere - con il "Trofeo Mezzalama" di scialpinismo negli anni Trenta. Ma ci sono altri passaggi decisivi: come la montagna come luogo di ribellione delle eresie religiose (viene ricordato l'esperienza di Dolcino nella vicina Valsesia), ma anche come luoghi dell'irruzione della montagna nella Storia con la Prima Guerra mondiale e quella storia nella Storia degli Alpini come esempio di un'italica (sic!) razza montanara (sarebbe bello spazzar via la retorica, come fa Armiero e andare al sodo, nel centenario della Grande Guerra ormai imminente). Poi naturalmente, come naturale contraltare, lo studioso ricorda la Resistenza e i partigiani che salgono in montagna: atto fondativo della nuova Repubblica con le tante disillusioni che ben conosciamo. Molte pagine, con evidente partecipazione emotiva, sono infine dedicate alla diga del Vajont, segno evidente del rapporto pianura-montagna, sino alle estreme conseguenze di una tragedia annunciata, vera strage di Stato. In poche righe, ho riassunto quanto più mi ha colpito. Resta il fatto che, come sempre, segnalo i libri perché vengano letti!