"Lavorare in fabbrica". Per molti valdostani, nelle precedenti generazioni, in questa frase c'era una speranza. Ricordo quanto i clienti di mio papà veterinario, dunque prevalentemente contadini proprietari di bestiame, ritenessero che un "posto fisso" in un'industria - specie prima dell'esplosione del settore pubblico - rappresentasse per i loro figli una svolta, rispetto alle insidie insite nel lavoro agricolo. Era una sorta di riscatto sociale, che tra l'altro creava quelle figure - a cavallo fra campagna e industria - teorizzate dallo stesso Adriano Olivetti a sostegno della coesione sociale di una comunità, conciliando due mondi apparentemente diversi, che diventavano complementari. E' difficile capire, se non forse pensando alla "Cogne" di Aosta di oggi e al suo numero ancora imponente di dipendenti, che cosa siano state l'"Ilssa Viola" di Pont-Saint-Martin per la zona o egualmente il "Cotonificio" di Verrès o la "Montefibre" di Châtillon e potrei a lungo proseguire l'elenco di aziende scomparse. E sono state delle ferite che hanno messo un sacco di tempo a rimarginarsi. L'industrializzazione valdostana è nata e si è radicata per la presenze in loco di energia e di certe materie prime e poi, nel dopoguerra, anche l'azione di stimolo della Regione, infrantasi contro operazioni sbagliate con troppi industriali che hanno sfruttato i benefici e se ne sono andati e poi con il venir meno di sostegni pubblici alle imprese. Certo in alcuni casi, naturalmente, le aziende aprivano o chiudevano, a seconda del respiro dell'economia mondiale: l'Italia e noi di seguito abbiamo visto la crisi del tessile, della chimica, dell'elettronica, della componentistica per auto. In questi anni i piani di reindustrializzazione non solo non hanno funzionato, ma prosegue l'emorragia del settore industriale (le ultime sono a Verrès la chiusura della "Rivoira" e la "Verrès Spa" ridotta al lumicino) e basta guardare ai dati occupazionali e alle aree, che sono state dismesse e restano sottoccupate o mal impiegate, per capirci. Così, di tanto in tanto, specie quando in politica decresce il tasso culturale a vantaggio del rampantismo elettoralistico, sento discorsi del genere: tocca rassegnarsi, l'industria non è nelle nostre corde, bisogna fare altro. Evidentemente si tratta di discorsi che non tengono conto di due caposaldi. Il primo è che l'industria, sin dagli esordi del fenomeno dell'industrializzazione, fanno parte della vocazione del fondovalle e dunque chi pensa ad una sorta di dismissione cui rassegnarsi sbaglia di grosso. Il secondo riguarda la vocazione della nostra economia: chi favoleggia di una monocultura turistica, pur essendo il turismo - nelle sue diverse vocazioni - settore fondamentale, dimentica che la Valle non può vivere solo di questo. Avere un'economia equilibrata, comporta che ci sia anche l'industria. E mi spiace che si insegua sempre di più l'effimero - l'una tantum come elemento di prestigio, nel solco del "popolo bue" - piuttosto che la solidità di attività produttive, che abbiano una ricaduta generale sulla comunità.