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15 dic 2013

Settant'anni fa...

di Luciano Caveri

Yves Francisco, che è stato partigiano, è oggi un arzillo novantenne. Da ragazzo fu testimone di un arresto importante, avvenuto settant'anni fa come domani, 13 dicembre, e me lo ha raccontato più di una volta. E' una testimonianza di chi ha visto l'incrociarsi della storia personale con la grande Storia di Primo Levi, divenuto poi testimone e impareggiabile narratore del dramma della Shoah, morto suicida nell'aprile del 1987. Esemplare è ricordare oggi una sua speranza: «In questa nostra epoca fragorosa e cartacea, piena di propaganda aperta e di suggestioni occulte, di retorica macchinale, di compromessi, di scandali e di stanchezza, la voce della verità, anziché perdersi, acquista un timbro nuovo, un risalto più nitido». Ma torniamo al suo arresto. «Quella notte ho sentito dei cani ululare e mi sono alzata una volta o due: perché questi cani ululavano nella valle? Poi ho sentito dei rumori. Siccome avevo in tasca dei foglietti del "Partito d'azione Giustizia e libertà", sono corsa in un bagno per buttarli via e ho visto che la casa era circondata ormai dai fascisti... Quando ci hanno preso, abbiamo detto "non siamo partigiani", perché all’inizio di quel mese era uscita la legge che condannava i partigiani a essere passati per le armi subito». E' la psicoanalista Luciana Nissim Momigliano che ha lasciato questo ricordo del 13 dicembre 1943, quando a causa di una spia fu fatta prigioniera in un alberghetto della zia di Francisco, situato al Col de Joux, esattamente nel villaggio di Amay di Saint-Vincent, insieme con altri quattro antifascisti ebrei: Primo Levi, Vanda Maestro, Guido Bachi, Aldo Piacenza. Primo Levi comincio da lì, con la breve esperienza in una scalcinata e presto scoperta banda partigiana, la sua avventura, che ne fece una delle voci più chiare, attraverso i suoi libri, delle tragedie dell'Olocausto. Dopo l'interrogatorio nella caserma "Cesare Battisti" ad Aosta, venne trasferito nel campo di transito di Fossoli a Carpi in provincia di Modena. Il 22 febbraio 1944, Levi ed altri 650 ebrei vengono stipati su un treno merci e destinati al campo di concentramento di Auschwitz in Polonia. Levi fu qui registrato (con il numero 174 517) e subito condotto al campo di Buna-Monowitz, allora conosciuto come "Auschwitz III", dove rimase fino alla liberazione avvenuta da parte dell'Armata Rossa. Fu uno dei venti sopravvissuti di quelli che erano arrivati con lui al campo di sterminio. Questo periodo della sua vita è stato al centro dei suoi libri e della sua stessa esistenza, finita - non a caso - nel gesto estremo di un volo nella tromba delle scale, come inseguito da fantasmi dell'orrore del ricordo. In questo mesi, per un libro di Sergio Luzzato, si è detto che uno di questi fantasmi sarebbe stato l'uccisione, con un'esecuzione avvenuta tre giorni prima del suo arresto, di due giovani partigiani, accusati di aver rubato dei beni agli agricoltori della zona. Yves Francisco nega che Levi fosse là quando il fatto avvenne. Ma, in fondo, comunque sia, non cambia la sostanza delle cose, in un'epoca in cui il dolore e la violenza erano compagni di strada. Anche per chi combatteva dalla parte giusta. Per i ragazzini che, anche in Valle d'Aosta giocano con il neofascismo, come fa una parte di quelli dei "Forconi", basti questo pensiero di Levi: «Ogni tempo ha il suo fascismo. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col terrore dell'intimidazione poliziesca, ma anche negando e distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti sottili modi la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine». E' bene rifletterci.