L'altro giorno parlavamo del regionalismo con il professor Marco Cammelli, da poco presidente della "Commissione Paritetica Stato-Valle d'Aosta", espressione autorevole di parte statale. Cammelli è un professore di diritto amministrativo molto conosciuto e apprezzato e che ha ricoperto anche ruoli di vario genere che gli hanno consentito - lato Stato e lato Regioni - di comprendere a fondo certi meccanismi istituzionali. Ebbene, tra poco verranno pubblicati gli atti di una sua conferenza in cui annuncia - e la cosa farà scalpore - il fallimento del regionalismo italiano. Una tesi forte e naturalmente motivata, che - come da lui chiarito in una conversazione serale nella sua recente visita ad Aosta - non riguarda la nostra autonomia speciale, ma il regionalismo "ordinario".
Difficile dargli torto, anche se le sue tesi rischiano in questa fase di centralismo di ritorno, dopo le sceneggiate leghiste sul federalismo prossimo venturo che mai arrivò, non sarà banale neppure per la nostra di autonomia. En gros la storia del passato è così riassumibile: il Costituente immaginò un'Italia nel segno di un regionalismo "morbido", le cui punte avanzate - unica realizzazione nel dopoguerra - furono le autonomie speciali, noi compresi. Si dovette attendere più di vent'anni - dunque gli anni Settanta - per avere le Regioni ordinarie con un ritardo incredibile specie per paura delle Regioni "rosse" e per la continuità spaventosa fra il regime fascista e la burocrazia statale che avrebbe dovuta in parte essere spezzata dal regionalismo. Cammelli segnala il fallimento perché all'apparato statale si è sommato e non sostituito il potere regionale e la classe politica locale ha in sostanza scimmiottato vizi e virtù del centro. Questo ha portato a un progressivo logoramento del sistema e oggi siamo quasi al punto di rottura e Cammelli denuncia con coraggio il fallimento. Aggiungerei un elemento: il regionalismo "ordinario" al posto di elevarsi verso la specialità ha passato il tempo a rompere gli zebedei alle speciali, accuse di privilegi e di eccessiva ricchezza. Così la parte più forte del regionalismo è stata indebolita dall'"altro" regionalismo paradossalmente alleato con lo Stato. Caso unico di masochismo istituzionale. Con la riforma del regionalismo del 2001 poteva esserci una svolta ma la riforma, pur imperfetta, non è mai decollata e i boiardi di Stato hanno passato il tempo ad osteggiare ogni valorizzazione della democrazia locale. La clava più recente con cui hanno picchiato in testa alle autonomie a tutti i livelli è stato il patto di stabilità con cui si sono tagliati i soldi e la crisi ha peggiorato la situazione con lo Stato che passa il tempo, con i tanti burocrati statali diventati Ministri, a riportare su Roma poteri e competenze nel nome della crisi. Per cui, a conti fatti, le tesi di Cammelli potrebbero portare acqua al mulino del centralismo. A meno che, ma dubito che ci sia la temperie politica, rialzino la testa i poveri federalisti, mai ascoltati in questa Italia e si faccia finalmente una bella Costituzione federale e chi è in grado di reggere il federalismo ne usufruirà e chi è indegno resterà nel quadro regionalista attuale. Una doppia velocità che non ha nulla di scandaloso e che forse potrebbe evitare la situazione drammatica di scontro fra le parti più avanzate e meno avanzate dell'Italia e la resa dei conti la porrà sul tavolo l'Unione europea e non i localismi più o meno forti.