Leggo, con dispiacere, della morte di Pietro Calabrese, noto giornalista, che conobbi alla fine degli anni Novanta, nel suo breve passaggio alla "Rai", quando - essendo tra l'altro incaricato di un ripensamento della regionalizzazione della radiotelevisione pubblica - ebbi modo di presentargli qualche idea sul radicamento locale della Rai per avere una "Terza rete televisiva" davvero espressione dei territori. Poi ho seguito la sua carriera e leggevo la sua rubrica settimanale su "Sette" del "Corriere della Sera", dove mostrava acume e originalità. Mi avevo colpito, ad esempio, quando cominciò - mesi fa - a raccontare di un suo amico, Gino, cui era stato diagnosticato un cancro al polmone e di cui prese ad annotare il percorso medico ed umano con originalità e partecipazione, che mi aveva molto coinvolto nel capire le difficoltà nel percorso di un malato oncologico. Confesso di averci messo un po' a capire che Gino fosse proprio lui e che avesse, come in un racconto letterario, scelto di raccontare la sua malattia, i dolori, le speranze attraverso un "nom de plume" e le ultime volte, annotando un peggioramento, la sua prosa si era fatta nostalgica ma serena, come se avesse la consapevolezza dell'approssimarsi della fine e credo che un diario pubblico di questo genere sia stata una scelta coraggiosa. Ho letto che a giorni, purtroppo postumo, uscirà un libro sul racconto della sua vita dopo la scoperta del tumore: lo leggerò come omaggio a chi ha saputo raccontare la malattia come momento di riflessione e di introspezione sulla vita.