Quando ricevetti la Légion d'honneur, nel suggestivo scenario del Piccolo San Bernardo, pensai quanto la Francia, antico Stato nazionale, fosse abile nell'utilizzo di simbolismi identitari, dando loro un contesto degno e credibile. Per questo ho voluto in Valle la legge che ha portato, tra l'altro, alla definizioni anche in Valle di "simboli" come inno, bandiera, écusson ed onorificenze. Guardavo in queste ore le immagini della cerimonia con cui l'Académie française ha accolto la grande Simone Veil, una donna che ha attraversato la storia a cavallo di due secoli. Così l'inizio dell'articolo su "Le Parisien": "La femme préférée des Français est devenue "immortelle". Simone Veil, grande dame politique, rescapée des camps de la mort, ardente féministe et européenne convaincue, a fait jeudi son entrée à l'Académie française. Vêtue d'un habit vert Chanel et ceinte de son épée d'académicienne, sur la lame de laquelle est gravé son numéro de déportée, elle occupe désormais le treizième fauteuil de la vénérable institution". Il senso della memoria collettiva, la gratitudine per le grandi personalità, il rispetto delle forme e delle tradizioni fondano il senso nazionalitario "buono", evitando quelle forme grottesche e aggressive che trasformano i simbolismi politici in quegli orpelli cari ai totalitarismi che la Veil ha sofferto e combattuto in una carriera coraggiosa e adamantina. Nella descrizione del percorso dell'integrazione europea ai giovani, ho sempre usato il discorso che la Veil pronunciò quando assunse la prima Presidenza del Parlamento europeo nel 1979: la sua lucida rievocazione delle ragioni dell'europeismo colpiscono e commuovono.