Gli spagnoli mi sono sempre stati simpatici, anche se va subito precisato come la mia frequentazione dei rappresentanti dei partiti delle antiche minoranze nazionali (dalla Catalogna ai Paesi Baschi, dalle Canarie alla Galizia) mi abbia confermato come ci siano nell'attuale Spagna popoli diversi e alcuni non vogliono legittimamente essere chiamati spagnoli e operano - e ovviamente non condivido il percorso di chi lo fa con la violenza - per avere forme d'indipendenza corrispondenti al loro desiderio di maggior libertà. Per altro, le discussioni più interessanti le ho avute proprio con loro nel seno dell'Integruppo al Parlamento europeo delle "Nazioni senza Stato". Ciò dimostra, ma il discorso sarebbe lungo, come il termine "nazione" muti a seconda delle proprie esperienze storiche e come la stessa valutazione del termine "Stato" differisca. La caduta della dittatura di Francisco Franco, durata quarant'anni e conclusasi a metà degli anni Settanta, e il successivo ingresso nell'Unione europea nel 1986 hanno fatto scattare come una molla l'economia della Spagna, che - a differenza dei fondi europei che nel Sud d'Italia non hanno sortito effetti - ha usato le chances comunitarie con grande capacità in un disegno autonomistico interessante sino ad arrivare, come segno della spinta avuta, ad un recente sorpasso del "Pil" italiano. Essendo stato in Spagna per due giorni, ammirando come sempre la varietà dei paesaggi e la vastità del territorio (da un freddo cane!), ho raccolto e trasferisco qui la preoccupazione per un'economia che scricchiola e le vicende della Grecia, ma anche dei loro "cugini" portoghesi, fanno venire i brividi. La crisi economica, il debito pubblico, la speculazione internazionale: gli spagnoli - e noi con loro - guardano con apprensione al futuro e sperano che non salti il banco.