Sono lieto che sia nata una Fondazione per ricordare Giulio Dolchi. E' raro, infatti, che si ricordino i politici valdostani più contemporanei, talvolta dolorosamente piombati nell'oblio forse perché il loro esempio farebbe ombra a esponenti di oggi di una politica superficiale e arraffona.
Giulio Dolchi, di cui mio padre mi ricordava una lunga discussione sul "da farsi" dopo l'8 settembre, era discendente di un'antica famiglia valdostana e questo suo tratto un po' elitario gli era valso le pesanti ironie (del genere, per capirci, "gauche caviar" alla francese) di alcuni cretini del suo schieramento in servizio effettivo e permanente di un veterocomunismo sempre perdente e che ha inzuppato il biscotto rancido nei veleni e nelle cattiverie.
Dolchi, invece, era attivo, in piena guerra fredda, su diversi ponti est-ovest e nell'ambiente francofono dove si trovava a suo agio con il suo francese forbito. Era conosciuto e apprezzato fuori Valle e anche questo strideva con una concezione chiusa e autoreferenziale di molti che, oltre Quincinetto, sono dei "signor Nessuno".
Il suo era un antifascismo ragionevole e non settario, quando molti del vecchio Pci miravano a prendersi il merito intero della Resistenza.
"Dudo" - questo era il suo nomignolo - mi onorava della sua amicizia e i suoi occhi chiari, imbevuti d'ironia, erano il guizzo giusto quand'era il momento di affrontare argomenti seri o meno seri.
Nel 1992 fece parte, con Augusto Fosson, della coppia che sfidò - nella certezza di vincere - Cesare Dujany ed il sottoscritto: per loro la sconfitta fu crudele, ma il suo augurio per il successo inaspettato risultò sincero.